Risolto in Germania quello che era stato definito come il mistero della suora dal dente blu: infatti, dopo una serie di analisi e di studi sul reperto di dentatura risalente ad epoca medievale si è avuta finalmente una nuova prova che anche le donne lavoravano come amanuensi sui manoscritti e la conferma è stata trovata dai ricercatori del “Max Planck Institute for the Science of Human History” di Jena (Turingia) in una macchia di colore blu tra i denti e che dopo quasi 900 anni ha dato una importante indicazione in merito a una delle principali attività dell’epoca, vale a dire l’illustrazione e la compilazione dei volumi. E la testimonianza della dentatura che la dottoressa Christina Warinner e il suo gruppo hanno analizzato è importante anche perché si tratta di una delle poche che attestano come esistessero delle suore amanuensi, seppure in numero notevolmente minore rispetto ai “colleghi” uomini, che si occupavano della realizzazione di testi sacri, rompendo di fatto una sorta di tabù. Inoltre, a detta della stessa Warinner la scoperta ora aprirà nuove prospettive di indagine su un periodo storico in cui ancora tanti aspetti rimangono nell’ombra.
IL COLORE BLU TRA I DENTI
Per giungere a questo risultato, gli studiosi del “Max Planck Institute for the Science of Human History” hanno utilizzato la tecnica del radiocarbonio sull’impronta dentale, datandola all’incirca tra il 997 e il 1162 dopo Cristo, attribuendola a un soggetto di sesso femminile morto probabilmente quando aveva un’età compresa tra i 45 e i 60 anni. E il loro lavoro si è incentrato proprio sulla suddetta macchia blu tra i denti, dovuta probabilmente a dei pigmenti di lapislazzuli con sui si otteneva il colore blu usato dagli amanuensi per illustrare alcuni libri: secondo i ricercatori, l’ipotesi più semplice ma anche più accreditata per cui quella macchia di colore sia rimasta tra i denti è che la monaca soleva toccare sovente la bocca con la punta del suo pennello. Inoltre, come ha spiegato la stessa Christina Warinner alla stampa specializzata all’indomani della scoperta, di cui si è parlato anche su Science Advances, il reperto rappresenta una sorta di “capsula del tempo” che ha consentito agli scienziati di tornare al Medioevo e che “quel blu è di un luminoso mai visto prima” e dovuto all’impiego di lapislazzuli di difficile reperimento.