Sono 119 i privati – banche, assicurazioni, casse professionali, capitanati da Intesa Sanpaolo – detentori indiretti delle riserve auree italiane, ovvero delle 2.452 tonnellate di oro giuridicamente possedute dalla Banca d’Italia di cui sono diventati soci negli ultimi anni. Per comprendere i valori in gioco, alla Carige “spetterebbero” circa 100 tonnellate, per un equivalente in euro di 3 miliardi e mezzo, più di quanto previsto come intervento massimo da parte dello Stato.
È vero che lo statuto della Banca d’Italia limita i diritti patrimoniali dei quotisti al solo capitale nominale di 7 miliardi e mezzo, ma nulla stabilisce circa le modalità di utilizzo del patrimonio aureo. La vicenda della Cassa di Risparmio di Genova ci offre comunque l’occasione di mettere anche l’oro sul piatto della bilancia degli equilibri finanziari degli enti creditizi e del debito pubblico.
La legge di riforma della Banca d’Italia del 2014 ha stravolto l’impianto pubblico dell’istituto senza ridefinirne ruolo e funzioni, assegnando a un immaginario mercato libero – ovviamente inesistente – delle 300.000 quote il compito di garantirne la libertà di gestione.
Fino a quando la Banca era dello Stato, ovvero di Enti pubblici, si sarebbe potuto affermare che anche l’oro fosse nella disponibilità dei cittadini italiani, che avrebbero potuto decidere cosa farne. Le proposte in tal senso, nel passato, sono state diverse: da garanzia per l’emissione di titoli di stato a tasso ridotto al riacquisto di parte del debito pubblico, fino al finanziamento di provvedimenti straordinari di stimolo dell’economia. In ogni caso, si deve tenere presente che le cosiddette riserve sono nella piena disponibilità degli organi di gestione di Banca d’Italia in quanto non esiste più l’esigenza di costituire un collaterale all’emissione di moneta – compito delegato alla Bce.
Al momento non possiamo però discutere di quale ne sia la migliore strategia d’utilizzo, in quanto oggi le riserve sono ostaggio di fatto dei 119 quotisti.
E poi, è bene ricordarlo, neanche tutti i lingotti sono “fisicamente” in mano del governatore, trovandosi una parte nei forzieri della Fed e della Banca d Inghilterra, senza una chiara regolamentazione.
Nel 2014 alcuni parlamentari 5stelle, successivamente espulsi, avevano iniziato a indagare, anche tramite una visita ispettiva presso i caveaux di via Nazionale e avevano spinto tutto il gruppo parlamentare alla, ormai dimenticata, battaglia sul decreto Imu/Banca d’Italia. Al tempo solo questo quotidiano aveva, con diversi interventi, approfondito le conseguenze generali delle norme e persino l’incostituzionalità delle stesse.
Fra gli articoli vale la pena di ricordare un’intervista all’allora esponente del fronte anti-euro, e ora deputato della Lega, Claudio Borghi. Al tempo, forse, anche la necessità di dotare di riserve auree l’Italia in caso di adozione di una nuova lira costituiva una forte ragione di opposizione al decreto.
Ed ecco che ora, con una proposta di legge, propone di chiarire che i lingotti debbano intendersi semplicemente come custoditi da Banca d’Italia.
Non sappiamo se si tratta solo di una doverosa proposta di principio o se esiste, come ci auguriamo, una più ampia strategia. In tal caso, però, sarebbe bene che il dibattito fosse aperto e alla luce del sole e vorremmo suggerire al Parlamento di riprendere in mano il dossier Banca d’Italia, riconducendone tutto il patrimonio, e non solo i lingotti, nell’alveo pubblico. Ovviamente, si spera che il suo utilizzo sia nell’interesse dei cittadini tutti. Ma questa è un’altra storia.