Qualunque sia il giudizio sulle sue politiche, credo che nessuno possa augurarsi l’instabilità interna di Israele, che renderebbe ancor più pericolosa la situazione di tutto il Medio oriente. Malauguratamente, è quanto sembra accadere in questo inizio anno, con lo scioglimento del Parlamento, la Knesset, e l’anticipo al 9 aprile delle elezioni legislative, originariamente fissate per il novembre 2019. Le dimissioni nello scorso novembre del ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, e il ritiro dalla coalizione di governo del suo partito, Israel Beytenu, avevano lasciato il premier Benjamin Netanyahu con soli 61 voti sul totale di 120 seggi della Knesset.
Non è questo però l’unico problema di Netanyahu, perché su di lui pende la minaccia di ben tre procedimenti penali per partecipazione ad atti di corruzione. L’anticipo della tornata elettorale gli eviterebbe perciò il rischio di dover condurre una campagna elettorale nella veste di rinviato a giudizio. Un rischio che non sembra per nulla evitato, poiché il Procuratore generale sembra intenzionato a decidere sull’eventuale rinvio a giudizio prima della data di chiusura delle liste. Ciò ha portato esponenti politici e commentatori a chiedere a Netanyahu di non candidarsi nel caso fosse rinviato a giudizio. Da parte sua, Netanyahu ha già trasformato la vicenda in un argomento di campagna elettorale, dichiarando di essere vittima di attacchi strumentali. Un certo scalpore ha fatto un suo intervento in televisione, a quanto pare a insaputa dei suoi stessi ministri, dove ha attaccato gli inquirenti per non avergli consentito un confronto preliminare con i testimoni che lo accusano.
Per il momento, tuttavia, la posizione di Netanyahu non sembra particolarmente indebolita e il suo partito, il Likud, è dato nei sondaggi tuttora di gran lunga il favorito, con circa 30 seggi. Il problema rimane con quali altri partiti costruire una solida coalizione di governo: quella appena sciolta era composta da sei partiti, ma il frazionamento politico in Israele si sta estendendo, a destra e a sinistra. All’inizio dell’anno si è sciolto Campo Sionista, raggruppamento di centrosinistra con 24 seggi nel precedente Parlamento, costituito dallo Hatnua di Tzipi Livni, che svolgeva il ruolo di capo dell’opposizione, e dal Partito laburista. La scissione è avvenuta ad opera del capo dei laburisti in un confronto televisivo con la Livni, che non era stata informata precedentemente della decisione. Una mossa criticata anche all’interno del Partito laburista, dato nei sondaggi in rapida caduta, come d’altronde lo Hatnua della Livni. Uniti erano usciti dalle elezioni del 2015 come seconda forza parlamentare. Il terzo partito nella Knesset, Lista Comune, il raggruppamento che unisce quattro partiti arabo-israeliani, sta subendo a sua volta fratture interne, mentre a destra ci si divide tra laici, religiosi di diverso grado di ortodossia, ashkenaziti e sefarditi.
A movimentare lo scenario vi è la continua nascita di nuovi partiti e uno di questi, il partito centrista dell’ex capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, il generale Benny Gantz, sta sempre più assumendo un ruolo da protagonista. Più che al partito in sé, l’attenzione è concentrata su Gantz che, nei sondaggi, è considerato l’unica alternativa a Netanyahu come primo ministro. Il partito è invece ancora condizionato da una non precisa scelta tra centrodestra e centrosinistra, anche se non è escluso che possa decidere di presentarsi come “partito dell’unità”. Il fatto che sia guidato da un generale potrebbe giustificare una simile scelta, in sé azzardata: data la situazione di continua guerra di Israele, l’esercito rappresenta in effetti un elemento di unità nazionale.
Non è escluso che questa incerta situazione politica sia una delle ragioni, accanto a quelle interne, del ripensamento di Trump sui tempi di ritiro dalla Siria, che lascerebbe più esposto Israele nel pieno di una difficile campagna elettorale.
Anche l’annosa questione palestinese risente di questo rimescolamento nella politica israeliana. Da diverso tempo si parla di un Piano Trump per la soluzione della questione, ancora però non reso pubblico. Netanyahu si è affrettato a invitare Trump a non svelare i contenuti del suo piano, perché potrebbero essere considerati un’interferenza nelle elezioni.
Occorreranno diversi mesi prima che Israele abbia un nuovo governo: c’è solo da sperare che di questo parziale vuoto non approfitti nessuno dei vari contendenti per rimettere a ferro e fuoco l’intera regione.