Nell’intervista rilasciata al Corriere, don Julián Carrón ha posto l’accento su di un aspetto cruciale della crisi di questa contemporaneità, il quale va oltre la stessa questione dei migranti, da cui prende le mosse.
Quella dei migranti “è il segno di una crisi che non è innanzitutto politica ed economica ma antropologica, perché – afferma il presidente di Cl – riguarda i fondamenti della vita personale e sociale”. E spiega, citando Papa Francesco, che questa crisi antropologica discende da una frattura del rapporto con la realtà, dal fatto che al posto dei volti, dei nomi, delle storie abbiamo insediato i numeri, un filtro che ha sostituito il concreto della carne con l’astratto della ragione calcolistica.
Su questo penso che sia il caso di riflettere ancora.
Questa crisi, infatti, ha un carattere universale, nel senso che consiste in una mutazione generale del modo in cui gli uomini si concepiscono e concepiscono il loro rapporto con gli altri e con la natura. La quale mutazione investe l’intera trama delle relazioni sociali, e con esse, perciò, non solo la politica ma la stesso rapporto con la religiosità. E’ una modificazione che mette in crisi, sì, tutte le formazioni intermedie (dai partiti ai sindacati), ma con esse ancor prima tutte le forme in cui gli uomini sono venuti sperimentando di avere cose in comune con gli altri: dalla degenerazione del tifo calcistico alla crisi delle vocazioni, dal disastro ecologico ad una laicizzazione che abroga ogni interrogativo sul senso della vita.
A me pare esser questo il senso profondo dell’allarme di Papa Francesco: i migranti sono il simbolo di tutti gli esclusi della terra, la punta di un iceberg, che i mass-media fanno vedere, sotto la quale rimane nascosta una umanità dolente che è anche in casa nostra, della quale talvolta si parla come di numeri (5 milioni di poveri, oppure l’1 per cento che possiede quasi la metà di tutta la ricchezza del mondo) e che però mai si vede e che per questo resta ancor di più una mera astrazione.
Don Carrón imputa questa mutazione antropologica all’illuminismo, della cui aspirazione universalistica l’attuale globalizzazione sarebbe l’ultima, più clamorosa manifestazione.
C’è del vero in questo, se all’illuminismo si fa risalire l’assolutismo della ragione e per questa via la tecnicizzazione del mondo. Come pure c’è del vero nel rappresentare il nazionalismo (oggi si direbbe il sovranismo) come specifica risposta a questa generale spersonalizzazione delle relazioni umane, i cui limiti tuttavia don Carrón si affretta a segnalare.
Un grande, e molto discusso, pensatore del secolo scorso, Carl Schmitt, contrapponeva le civiltà del mare a quelle della terra: le prime determinate da uno spazio sconfinato e inconfinabile, dove la libertà si dà, al più, nella forma dello jus privatorum, come luogo dell’intrapresa individuale, del pensiero utilitario, del rischio e della tecnica per dominarlo (che però è anche dominio sugli uomini); le seconde dalle quali, invece, promana il “nomos della terra”, retto dalle appartenenze, dai legami, che dalla famiglia risalgono fino alle comunità e allo Stato e generano lo ius publicum europaeum. Schmitt interpretava la storia moderna come progressiva espansione del logos marino, come movimento dal solido al liquido. Ma il propiziato avvento del nomos della terra, che a suo avviso avrebbe dovuto contrastarlo, ebbe come esito l’ecatombe dell’umanità che tutti conosciamo.
Entro questa polarità sembra che il mondo di oggi si dibatta.
Don Carrón propone di annunciare la Presenza e testimoniarla. E si capisce. Ma l’annuncio del Regno a me sembra rivolto pure ai gentili, quand’anche non si convertano, e comunque a tutti gli “uomini di buona volontà”. E questo Regno a me sembra (anche) per questo mondo, ed ha un nome, amore del prossimo, che forse si potrebbe tradurre con solidarietà.
Questo Regno rifugge dalla singolarizzazione, dall’individualismo di massa, che al posto della persona pone il singulus, che produce una società connessa solo dal mercato e dalla rete, la quale appalta la sicurezza e la speranza ad una “politica della vita gestita individualmente” e annuncia che “ognuno può (e deve) salvarsi da solo”. Dove a questa sorta di privatizzazione della speranza segue – come scriveva Zygmunt Bauman – che “da risorsa su cui si può contare, la solidarietà tende a trasformarsi in onere … che svaluta il capitale sociale … valorizzando per contro l’autoreferenzialità, l’egoismo e una tensione anti-sociale all’autoaffermazione”. Quest’orizzonte singolare costituisce l’interpretazione sociale di un principio d’ordine, quello liberal-liberistico, che addita nella concorrenza l’unica e vera via della redenzione individuale e collettiva e, alla fine contrassegna come inevitabile scarto chi non riesce a prevalere, lo induce a pensarsi come perdente e gli offre come unica alternativa alla colpevolizzazione di sé la colpevolizzazione dell’altro, del “diverso” che viene da fuori, del “più povero” delle periferie o del “fannullone” che abita al Sud.
Questa a me sembra sia la “scristianizzazione” dell’occidente (e con esso ormai di tutto il mondo che si è occidentalizzato), di cui parla Papa Francesco. E verso questa a me sembra che vada portata, e testimoniata, la Buona novella di una società solidale.