L’accordo bocciato dal Parlamento inglese sulla Brexit non ha messo a soqquadro i mercati, che hanno parato bene il colpo. Ma le nubi all’orizzonte non mancano: la stessa questione Brexit resta ancora sul tappeto, i venti gelidi della recessione – come ha ricordato venerdì la Banca d’Italia dimezzando quasi le stime di crescita 2019 del Pil italiano – soffiano tuttora con insistenza, mentre dalla Cina arrivano segnali di un brusco rallentamento dell’economia, al quale si vuole mettere un freno con massicce iniezioni di liquidità. Per misurare la febbre a Borse, titoli di Stato e spread abbiamo interpellato Alessandro Magagnoli, analista tecnico e confondatore di Financial Trend Analysis (Ftaonline): “Per vedere come tira il vento nei prossimi mesi sarà opportuno tenere lo sguardo puntato non solo in direzione delle Borse, ma anche e soprattutto dei bond”.
In effetti, l’accordo bocciato dal Parlamento inglese sulla Brexit non ha scosso i mercati. Ma il rischio “no deal” potrebbe farsi sentire più avanti?
E’ inutile negarlo, gli occhi di tutti i mercati, nelle ultime settimane, sono stati puntati sulla Brexit, che per commentatori e analisti dei mercati Usa è annoverata come motivo di possibile instabilità al pari della guerra dei dazi Usa-Cina. La situazione resta molto incerta e a seconda della strada che intraprenderà il Regno Unito ci saranno reazioni più o meno violente da parte dei mercati.
Il termometro per misurare la febbre sarà il cambio sterlina/dollaro?
Sì, anche se per adesso, con il balzo in area 1,29, sembra puntare su una “soft Brexit” o su un “remain” tout court. Non si deve dimenticare che i mercati scontano con largo anticipo gli eventi noti – e spesso anche quelli meno noti ai più – e che sterlina, azioni e bond inglesi probabilmente già riflettono parte delle difficoltà a venire. E’ quindi possibile che un deterioramento del quadro, una “hard Brexit”, non abbia ripercussioni macroscopiche sui mercati finanziari, mentre una risoluzione pacifica della questione potrebbe risollevare le quotazioni dei mercati interessati.
Che segnali arrivano dalla Borsa britannica?
Il Ftse 100 è nella parte inferiore del canale rialzista disegnato dai minimi del 2009, ma ancora ben al di sopra della base, passante a 6.400 punti circa. Per chi crede a questa metodologia di analisi segnaliamo anche che i minimi di fine dicembre sono sulla linea 1×4 del ventaglio rialzista di Gann disegnato dai minimi di inizio 2009 (linea testata a più riprese anche nel 2016). La tenuta di area 6.400 potrebbe quindi favorire il ritorno sui massimi di area 7.900. Sotto area 6.400, invece, si aprirebbe il baratro: la linea 1×8 del ventaglio di Gann passa infatti a 5.000 punti circa.
In Italia, intanto, peggiorano sempre più le stime di crescita 2019. Dobbiamo aspettarci un periodo turbolento?
Per le previsioni sull’Italia, è iniziata la gara al ribasso. Oxford Economics ha tagliato ancora le stime di crescita del Pil 2019 per il nostro Paese, a seguito del dato negativo sul Pil del terzo trimestre e di quello sulla produzione industriale, che fanno prevedere anche un quarto trimestre in calo, quindi l’entrata in una fase di recessione tecnica. Per Oxford Economics la crescita 2019 si fermerà allo 0,3% quest’anno, sempre più lontana dalle stime del Governo. Ancora più drastica Bank of America Merrill Lynch, che ha abbassato a +0,2% da +0,7% la previsione sulla crescita 2019, con consumi stabili, ma con problemi sul fronte dell’offerta e investimenti più bassi degli altri Paesi Ue. Di manica poco più larga rispetto a Oxford Economics è stata Goldman Sachs, che ha portato il dato del Pil 2019 dall’1% allo 0,4%, facendo altresì capire che è “improbabile” che la manovra italiana stimoli la crescita. Anzi, qualora ci dovesse anche essere un effetto espansivo, questo verrebbe probabilmente inficiato dai rialzi dei rendimenti dei titoli di Stato e dalle difficoltà del settore bancario con i riflessi sull’erogazione del credito, punto di partenza del classico circolo vizioso “meno credito = meno crescita = ancora meno credito”…
Pimco, maggiore gestore obbligazionario a livello mondiale, prevede per il 2019 una crescita zero se non addirittura leggermente negativa e per questo rimane sottopesato sui Btp nel portafoglio medio. Che cosa potrebbe accadere sul fronte dei titoli di Stato italiani?
Il grafico dei tassi sui Btp a 10 anni non riflette queste preoccupazioni: dai massimi del 3,78% toccati il 19 ottobre, con lo spread rispetto al Bund a 332 punti circa, le quotazioni sono tornate stabilmente al di sotto del 3% e lo spread che si è ridotto a poco più di 250 punti. Sul grafico di lungo termine era evidente la presenza di un doppio minimo in area 1% disegnato tra il 2015 e il 2016, figura rialzista – bisogna sempre ricordare che quando i tassi di un’obbligazione salgono le sue quotazioni scendono, quindi a una figura rialzista sul grafico dei tassi corrisponde una figura ribassista su quello del titolo – confermata con la rottura dei massimi del 2017 di area 2,50. Il target della figura, ottenuto proiettandone l’ampiezza dal punto di rottura, si collocava tra il 3,85% e il 4,05%, molto vicino al citato massimo del 3,78%, dal quale si è infatti sviluppata una robusta correzione. Sotto il 2,70%, retta di regressione calcolata dai minimi di inizio 2015, si rientrerebbe in una situazione di “normalità”.
E per lo spread Btp-Bund?
Valgono le stesse considerazioni. In caso di violazione dei 250 punti base, dove transita la media mobile esponenziale a 200 giorni, potrebbe dirigersi nuovamente verso i 200 punti, quota che era stata toccata anche nel 2017.
Guardiamo ora ai grafici dell’indice di Piazza Affari. Che cosa ci mostrano?
Per il Ftse Mib sarebbero solo discese al di sotto dei 18.000 punti, ultima linea del ventaglio rialzista di Gann (1×8) disegnato dai minimi di luglio 2012 toccata con precisione millimetrica il 27 dicembre 2018, a introdurre il rischio di un test in area 17.000 della trend line che sale dai minimi del 2012, ultimo appiglio al quale aggrapparsi per evitare di dichiarare invertito in senso ribassista il trend di lungo periodo. Fino a che i prezzi saranno al di sopra di 17.000, e meglio ancora di 18.000, il rimbalzo visto dai citati minimi di dicembre potrebbe andare a mettere alla prova la resistenza di area 19.700, ostacolo oltre il quale si aprirebbero spazi di rialzo molto interessanti, fino ai 22.000 punti circa.
A Piazza Affari sono tornati in fibrillazione i titoli bancari. Che segnali grafici arrivano dal settore?
A novembre le sofferenze nette del sistema bancario italiano erano ancora 37,5 miliardi di euro. L’Abi ha calcolato che si sono ridotte del 56% in poco meno di due anni, ma evidentemente resta tanto da fare. A questi vanno sommati 86 miliardi lordi, coperti al 30%, di inadempienze probabili, che nette sono quindi 60 miliardi circa. Si tratta quindi di un totale di quasi 100 miliardi ancora da “sistemare” e per i quali la Bce richiede, o richiederà, anche se probabilmente con modalità diverse caso per caso dopo averlo già fatto con Banca Mps, lo smobilizzo entro il 2026. Le banche, già gravate dall’esposizione al debito sovrano italiano, che per colpa del rialzo dello spread è diventato un ulteriore fardello, e dal rallentamento dell’economia, dovranno quindi fare i conti anche con una tempistica abbastanza ristretta per disfarsi degli scheletri che ancora ci sono negli armadi. Insomma, una situazione, se non esplosiva, di certo preoccupante, che si riflette nel calo delle quotazioni dei principali titoli bancari, con Ubi, Bper e Banco Bpm al di sotto di importanti supporti.
E il settoriale domestico delle banche come si sta comportando?
Per il Ftse Italia Banche la resistenza da battere è quella degli 8.500 punti, dove transita la media mobile esponenziale a 100 giorni (indicatore che con la sua posizione rispetto ai prezzi fornisce una valutazione, anche se solo di sintesi, della condizione del trend di medio periodo) con la possibilità oltre quei livelli di vedere finalmente iniziare la correzione del ribasso subìto dai massimi di aprile 2018 a 12.650 circa (per tornare sui massimi di aprile 2018 il Ftse Italia Banche dovrebbe rivalutarsi del 58%!). Già al superamento di area 9.300 si potrebbe iniziare a parlare di un cambiamento duraturo del sentiment di mercato nei confronti delle banche. Senza la rottura di area 8.500 il rischio di un proseguimento della discesa almeno fino a incontrare i minimi del 2012 a 5.950 punti circa resterà invece elevato.
La locomotiva cinese inizia a rallentare…
E il governo è pronto a ridurre le pressioni al ribasso sulla crescita facendo ricorso a un maxi-pacchetto di stimolo. La strada è quasi obbligata, senza un robusto programma di stimoli l’espansione cinese rischia di scendere molto al di sotto della soglia minima desiderata del 6%. Il 16 gennaio la People’s Bank of China (PBoC) ha iniettato nel sistema bancario attraverso l’open market la cifra record di 570 miliardi di yuan, pari a poco meno di 74 miliardi di euro, nell’ennesimo tentativo di aumentare la liquidità e sostenere i prestiti per rilanciare l’economia di Pechino in fase di rallentamento.
Che cosa significa tutto questo?
Se aggiungiamo l’incognita dell’esito della “guerra dei dazi” con Trump, questo mix può far precipitare il Paese in crisi, a meno dell’adozione di un robusto programma di stimoli che però farebbe aumentare i timori sull’eccesso di indebitamento nel Paese. La pioggia di liquidità favorisce la crescita del debito e il debito totale cinese, pubblico e privato, ha superato il 260% del Pil, mentre i debiti delle famiglie negli ultimi dieci anni sono cresciuti dal 18% al 49% del Pil.
C’è il timore che questa leva finanziaria elevata possa essere la causa della prossima crisi?
La bolla era pronta a scoppiare con gli aumenti dei tassi promessi dalla Fed per il 2019, e le Borse a dicembre avevano già fiutato l’aria; poi la Banca centrale Usa ha fatto una parziale marcia indietro, ma le probabilità che i tassi sui Fed fund salgano un altro paio di volte nel 2019 non sono del tutto cancellate. L’enorme mole di Npl (non performing loans), con cui le banche italiane devono fare i conti anche adesso, non è solo un problema di casa nostra. Il debito privato in Italia è al 41,3% circa del Pil, ma quello tedesco è quasi al 53%, quello inglese all’86%, quello canadese al 100%. A livello globale i debiti hanno raggiunto i 184mila miliardi di dollari, il 225% del Pil mondiale. Le tre nazioni più indebitate sono Stati Uniti (debito privati al 77-78% del Pil), Cina e Giappone (debito pubblico al 240% circa del Pil) che da sole fanno la metà circa del totale.
In un contesto di tassi d’interesse crescenti, sale il rischio che i “bad debts” aumentino?
Nella migliore delle ipotesi, se il rialzo dei tassi è graduale, si assiste a un calo controllato dei consumi e quindi dei profitti delle aziende, l’economia prosegue lungo la curva discendente del ciclo economico in attesa che si creino le condizioni per una nuova ripresa. Se invece i tassi salgono rapidamente, la “bolla” può scoppiare. Bisogna poi fare attenzione a un elemento importante.
Quale?
Le Banche centrali controllano i tassi a breve, ma quelli a più lunga scadenza li fa il mercato, e i tassi di prestito non sono necessariamente legati a quelli a breve. Un loro aumento comporta un calo dei redditi disponibili, più interessi da pagare, meno soldi da spendere, e in molte situazioni, lo abbiamo già visto più volte, l’impossibilità di ripagare il debito. E la montagna di crediti deteriorati a quel punto, invece di scendere, tornerebbe a salire. E inizierebbe allora il circolo vizioso di tutte le recessioni: le banche prestano meno soldi dal momento che devono fare fronte alle perdite, la diminuzione di credito rallenta la crescita economica, i consumi calano, le aziende in difficoltà chiudono, le banche riducono ulteriormente il credito…
(Marco Biscella)