Il coro dei pentiti e dei rimorsi per la gestione della crisi dei debiti sovrani in Europa dopo la crisi finanziaria del 2008 si arricchisce ogni giorno che passa di nuove voci e nuovi argomenti. Ne riprendiamo uno tra i tantissimi di questi giorni dal Sole 24 Ore di giovedì 17; a parlare è Carlo De Benedetti secondo cui “l’euro è zoppo e incompiuto” e la “costruzione europea è in evidente difficoltà”. Si aggiunge persino una critica al “blairismo”, fino all’altro ieri il punto di riferimento di un’area politica molto ampia.
I difetti della “costruzione” ovviamente sfuggono solo a chi non li vuole vedere e a quelli che continuano a difendere uno status quo che ha vincitori e vinti molto ben definiti. Infatti, oggi l’Unione europea non è condotta da un Parlamento europeo, saremmo gli europeisti più sfegatati d’Italia, ma sempre di più e in modo sempre più evidente da un Paese che, per inciso, è la Germania con tutto quello che questo comporta. Interrogarsi sulle responsabilità o irresponsabilità che hanno portato a questa situazione va bene fino a un certo punto; nel senso che siamo dispostissimi a riconoscere che l’Italia ha giocato malissimo la sua partita e la Germania benissimo, però rimane il fatto che certe regole si sono potute e si possono non rispettare e altre no e che oggi ci sono due enormi problemi.
Il primo è politico, perché in Europa comandano i creditori, e il secondo è che l’Europa non ha una struttura che permetta uno sviluppo armonico. Soprattutto, ed è la vera questione di cui noi tutti ci dovremmo preoccupare, l’attuale “costruzione europea” con le sue regole e la sua banca centrale appare molto poco adatta a gestire fasi di “volatilità”, crisi o recessione. La crisi del 2008, per tantissime ragioni che non vogliamo discutere ora, ha portato alla crisi dei debiti sovrani, mentre in tutto il resto del mondo si stampava e comprava qualsiasi cosa, gestita in modo molto meno che ottimale e in uno spirito di pura competizione tra stati reso possibile dai difetti della “costruzione”. Ovviamente è solo colpa dei greci se, per esempio, non hanno neanche il catasto, però quando la politica monetaria te la gestisce un altro che mette le mani nella gestione della crisi poi le responsabilità, in qualche modo e in misura più o meno ampia, si allargano.
Oggi assistiamo al calo dello “spread” e sinceramente dubitiamo che i “mercati” si siano fatti impressionare dal reddito di cittadinanza di cui, pare, persino una metà del Governo non sembra particolarmente orgogliosa. Eppure lo “spread” scende, con in più una recessione “tecnica”, e non servono incredibili sforzi di immaginazione per capire chi e perché lo stia facendo scendere. A quattro mesi dalle elezioni europee. Esattamente come non servivano grandi sforzi di immaginazione per accorgersi che forse, diciamo due mesi fa, qualcuno si era, giustamente o meno non ci interessa, girato dall’altra parte.
Le questioni rimangono tutte sul tavolo però. Perché lo “spread” può anche scendere e nel frattempo aiutare i conti economici delle banche italiane, ma l’effetto è cosmetico; mascheriamo le magagne europee incluse quelle di Parigi che ha una traiettoria del debito negli ultimi 20 anni che è sicuramente peggiore di quella italiana. L’Europa “incompiuta”, per usare le parole di De Benedetti, mostra tutti i suoi limiti proprio in fasi economico-finanziarie sfidanti. Non bisogna essere sovranisti per ammettere che la Bce è meno in grado delle altre banche centrali di trasmettere liquidità “all’economia reale”, o per accorgersi che il surplus commerciale tedesco in fasi di rallentamento globale è una forza disgregatrice che aumenta gli squilibri, o che i Paesi più deboli risentono via spread più degli altri in assenza di qualsiasi valvola di sfogo, per non parlare delle regole bancarie procicliche o in generale dell’assenza di qualsiasi politica comune o banalmente di buon vicinato.
Non stiamo dicendo che gli “altri”, Stati Uniti, Cina o Giappone siano una terra promessa; anzi, gli squilibri finanziari americani fanno paura. Quello che stiamo segnalando è che gli altri hanno strumenti di gestione delle crisi migliori dei nostri, come abbiamo imparato dopo la crisi Lehman. L’Europa, sintetizzando in modo brutale, era messa molto meglio, eppure ha avuto a che fare con problemi che oggi la rendono fragile “politicamente”. Se arrivasse un’altra recessione o, meglio, una recessione vera e non finta, quello che preoccupa è cosa succederebbe in Europa in un continente dove i creditori hanno mano libera sui debitori, gli squilibri tra Paesi membri e regioni sono molto maggiori di dieci anni fa e dove il livello di malcontento è molto serio. È vero che le “élites” hanno tantissime leve, però quando c’è un tale scollamento tra “élite” e “popolo” le cose diventano sempre interessanti.
Oggi assistiamo a un grande mea culpa pre-elettorale tendenzialmente di quelli che pur di difendere “l’Europa” hanno negato l’evidenza che si fa sempre più fatica a nascondere. Questo ha fatto il male dell’Europa perché l’ha congelata e ha impedito un dibattito vero e non ideologico su cosa sia e come si debba riformare e se, eventualmente, valga ancora la pena o meno. Questi mea culpa però sembrano sterili. Sembrano l’equivalente degli annunci di certi “populisti” che poi non entrano nel merito e si esauriscono nell’orizzonte di una campagna elettorale o poco più. La percezione è che nei fatti non ci sia nessuna urgenza e alla fine nemmeno una volontà reale pensando che basti schivare le prossime elezioni e poi continuare a dare le carte controllando leve del potere che non sono più nelle mani dei singoli stati.
Quello che non ci torna, e magari ci sbagliamo, è che la crisi mette sotto pressione un progetto incompiuto e per questo fragile mentre continuano le pressioni esterne per impedire che si saldi una volta per tutte un blocco continentale autonomo e a guida tedesca. Continuare come si è fatto finora e con le stesse logiche può bastare? Forse sì, ma a che prezzo e con che rischi?