Di recente sul Corriere della Sera Mauro Magatti ha lucidamente descritto la sfida posta al sistema educativo e formativo italiano dal mondo e dall’economia digitale, registrando impietosamente la totale assenza di strategia e di visione, nelle mosse del governo e nella manovra economica. Non si tratta solo di trasferire competenze tecniche, ma di generare soggetti capaci di responsabilità e autonomia critica, in un mondo che tende a confezionare “cittadini-produttori […] sempre più soli e isolati, incapaci di capire (e quindi criticare) quello che accade attorno”. “Mettere davvero la formazione al centro di ogni azione di governo sarebbe stato un segnale forte della volontà di un cambiamento vero. Chi non lo fa, dice già dove – dolosamente o colposamente – ci sta portando: verso un mondo impoverito, sottomesso e disuguale”. (“L’era della digitalizzazione e la formazione che serve”, Corriere della Sera, 2 gennaio 2019).
Credo che il giudizio di Magatti debba essere preso molto sul serio, in un momento storico che tende a frammentare e a ridurre la persona a un insieme di capacità e di risorse da sfruttare, funzionali a uno schema di “utilità sociale”, che incrementa il potere delle élite e soffoca la libertà vera, quella di percepirsi irriducibili e di vivere la propria autenticità, fuori da uno schema strumentale. Come il filosofo coreano Byung-Chul Han argomenta, nel suo bellissimo libro L’espulsione dell’Altro (Nottetempo, 2017), nelle società “avanzate” lo sfruttamento dei soggetti si attua manipolando la percezione della propria libertà, ridotta ad autorealizzazione e ad ottimizzazione di se stessi. “Protect me from what I want”, scriveva amaramente l’artista Jenny Holzer, e io non posso fare a meno di ripensare, per contrasto, all’orazione liturgica “…fa’ che amiamo ciò che comandi e desideriamo ciò che prometti”. Siamo davvero nel mezzo di una crisi e di una sfida epocale.
Leggo Magatti e penso anche all’università, dove insegno, e alla corsa contro il tempo a cui costringiamo gli studenti, tra mille esami sempre più frammentati e ravvicinati, con una struttura didattica che impedisce loro di “perdersi nello studio”, per esplorare i nessi, dare il tempo alla propria mente di aprirsi e “convertirsi” alla novità, alla verità che prima era fuori di loro, di gustare lo studio come scoperta della realtà e di se stessi, oltre alla giusta e strumentale acquisizione di competenze (che, peraltro, se non messe nelle mani di chi sa pensare, fanno tanto più danno quanto più sono sofisticate). Così “…si ammassano informazioni e dati senza mai giungere a un sapere. […] Il sapere matura. Il maturare è una temporalità che oggi va sempre più scomparendo. Esso non si accorda all’attuale politica del tempo, che lo frammenta per incrementare l’efficienza e la produttività rimuovendo le strutture temporalmente stabili” (Byung-Chul Han, L’espulsione dell’Altro).
Ma senza sapere, come si fa a generare i soggetti capaci di “responsabilità e di autonomia critica” richiamati da Magatti? E come si può essere capaci di creare novità e sviluppo buoni, in un mondo sempre più complesso, in cui le mille strade che si aprono invocano qualcuno che le sappia scegliere con un perché adeguato? Poi mi capita di leggere il post di Briatore: “[…] L’università è un parcheggio per ventenni privi di futuro. I genitori, non sapendo dove piazzarli, li iscrivono a bizzarre facoltà dove hanno professori come tate! Poi imparano cose che nella vita non serviranno…”). Mi piacerebbe rispondere che se qualche parcheggiato non avesse studiato cose inutili in passato, staremmo ancora tutti quanti a cacciare animali e a raccogliere bacche nelle foreste, tanto per rimanere a livello dei bisogni primari. Ma tant’è, la lotta è impari e il grande imprenditore batte il piccolo ricercatore migliaia di follower a zero (per non parlare dei soldi).
Ma poi accadono delle cose, proprio lì, nelle aule dell’università. Durante una lezione di statistica, sottolineo agli studenti l’importanza di sviluppare un pensiero laterale, organico, non puramente “algoritmico” ma capace di novità. Mi interrompe un ragazzo in prima fila che mi chiede: “Ma queste competenze – le ha chiamate così -, dovreste insegnarcele; dove è che si imparano?” E, a fine corso, una studentessa mi confessa di aver avuto paura, rendendosi conto di non poter studiare in modo meccanico gli argomenti delle lezioni e di doverci mettere molto pensiero. “Ma poi mi sono esaltata!” mi dice.
In un altro corso, mancano pochi minuti all’inizio della lezione e allora, per riempire quel poco tempo, racconto della Colletta alimentare che si sarebbe svolta il giorno seguente, invitando gli studenti ad andare a fare un po’ di spesa per il Banco alimentare. Sempre in attesa di cominciare, accenno velocemente a un progetto di analisi dei dati, che stiamo impostando insieme a un’importante realtà del non-profit italiano, con l’obiettivo di oggettivare e rendere comunicabile il valore dei suoi servizi, a livello scientifico e pubblico. Finita la lezione, un paio di ore dopo, si avvicinano quattro studenti che mi chiedono come possono aiutarmi nel progetto. Domando il perché: se il loro interesse è fare esperienza di analisi dei dati, il web è pieno di dataset interessanti, sui quali fare pratica. “Ma noi vogliamo fare qualcosa che sia utile anche agli altri!” e rimangono lì dieci minuti, mentre racconto le motivazioni e gli obiettivi del progetto.
Ripenso all’articolo di Magatti e ripenso a questi fatti. Come è possibile che parlare di un pensiero organico in università desti stupore in un ragazzo? Come è possibile che una studentessa del terzo anno (e con la media altissima) abbia timore di uno studio non meccanico? Però poi lo studente mi chiede appassionato come fare ad allargare lo sguardo, e la ragazza è entusiasta del nuovo modo di studiare. E quattro ragazzi, che forse neanche sapevano cosa fosse il Banco alimentare, si mettono in moto per due frasi che li hanno colpiti. È un paradosso e, come insegna de Lubac, il paradosso non si può risolvere schiacciandolo su uno solo dei due poli. Deve essere accettato nella sua interezza. Dobbiamo entrare in rapporto con generazioni che forse non capiscono più le parole che per molti di noi sono state e sono care, ma che da quelle stesse parole sono stupite, attratte, mosse, forse per una nostalgia di un mondo che non conoscono, ma che vive in loro e da cui senza saperlo provengono.
Di che cosa hanno bisogno questi ragazzi? di maestri? di padri e di madri? Sì, credo di sì, ma più profondamente hanno bisogno di una trama di rapporti buoni in cui affondare le proprie radici e poter fiorire, cioè di un popolo. E un popolo si vede da come educa. È questa, io credo, la sfida epocale che abbiamo davanti: custodire il seme del popolo e farlo germogliare di nuovo. Questo governo probabilmente non ci aiuterà, ma i germogli spaccano anche le pietre. E io di germogli, in giro, ne vedo ancora molti.