A settembre 2018 è partita la “grande riforma” degli istituti professionali. Alzi la mano chi lo sa! In un Paese che deve decidere se stiamo imboccando il tunnel della recessione oppure siamo alla vigilia di un grande boom economico, la formazione dei giovani alle professioni dovrebbe essere in cima alle preoccupazioni della classe politica e degli apparati ministeriali. Invece una spessa cortina di inerzia e silenzio avvolge i passi necessari all’operatività istituzionale della riforma dei professionali che nel frattempo è decollata coinvolgendo oltre 150mila studenti delle prime classi.
Le linee guida, annunciate dal Miur molti mesi fa, giacciono in qualche cassetto del Mef in attesa di essere sdoganate e nessun concreto piano di formazione per i docenti è nemmeno annunciato. Le nuove priorità, quelle che danno visibilità sui giornali, si chiamano nuovi esami di Stato (o semplificazione dei vecchi?), grembiuli obbligatori per tutti, telecamere in classe. Se la riforma stabilisce che gli insegnanti dei professionali devono redigere, entro il 31 gennaio, un “progetto formativo individuale” (Pfi) per ogni studente, basato su un “bilancio personale” delle competenze maturate e delle esigenze di formazione, se ogni studente deve essere affiancato da un tutor chiamato a svolgere un nuovo e delicato compito di accompagnamento, se la didattica deve essere riformulata per assi culturali superando il tradizionale steccato tra le discipline, tutto questo pare poter avvenire per automatica traduzione del decreto legislativo, in assenza di ogni concreta attivazione degli apparati di governo della scuola.
Tutto male, dunque? Tutto da biasimare? Da uno osservatorio gratificante e privilegiato come quello da preside di istituto professionale, mi vien da rispondere di no, che forse, per la sempre misteriosa dinamica di imprevedibile connessione causa-effetto, questa volta è meglio che le cose abbiano preso questa piega. So di viaggiare sull’orlo di un paradosso, ma vengo, tanto per fare esempi concreti, da un bellissimo momento di lavoro, in settimana, tra scuole in rete che stanno sperimentando l’innovativa forma di fare scuola con gli studenti in apprendistato. Sempre in settimana ho visto i consigli delle prime classi autoconvocarsi per un confronto sulle progettazioni didattiche e sui progetti individuali. Una professoressa di matematica della mia scuola ha elaborato un piccolo software per i tutor, per condividere meglio con i colleghi i passi di miglioramento che ogni singolo studente fa all’interno del proprio piano individuale.
Che sia questa l’autonomia? In un recente momento di formazione per dirigenti, l’ex ministro Berlinguer, a chi gli diceva che occorre “rilanciare” l’autonomia, a vent’anni dal Regolamento che la introdusse (DPR 275/99), correggeva con fermezza: “No, occorre lanciarla!”, perché nella sua sostanza non è mai stata veramente colta. Allora anche le recenti esperienze aiutano forse a vedere la sostanza di cui la vera autonomia è fatta: il muoversi di persone autonome, cioè mosse dall’urgenza di rispondere in modo originale ed efficace ai bisogni educativi che incontrano e per questo aperte a cercare alleanze, legami con altre persone impegnate in analogo tentativo. Questa in fondo è la storia della miglior scuola che in questi anni abbiamo visto sviluppare: una passione al lavoro per rispondere alle nuove sfide che si presentano sfruttando tutti i margini di libertà che la farraginosità dell’impianto normativo, fatto di stratificazioni sovrapposte, consente.
Lo sviluppo sincopato della recente politica scolastica, segnata da arresti improvvisi e da ammiccanti cambi di rotta (cfr. alternanza scuola-lavoro), dovrebbe produrre insegnanti solo cinici e rinunciatari. Se questo non accade è solo perché la realtà vince sempre sull’idea e la realtà qui ha il volto di ragazzi, coi loro crescenti bisogni educativi davanti ai quali non si può girare la testa. E’ questo il piccolo grande miracolo quotidiano che viene dalla scuola militante, con buona pace di chi preferisce misurarsi con i like sui social.
A chi guida il pullman della scuola italiana la richiesta è allora quella di guardare ed ascoltare chi costruisce (piuttosto di chi si lamenta o di chi fa progetti a tavolino) e concedere spazio normativo, risorse, visibilità a quella costruzione.