Caro direttore,
scrivo quest’articolo nel giorno in cui Giorgio Gaber avrebbe compiuto 80 anni e mi sento in dovere di dedicarglielo, componendolo mentre ascolto una sua canzone il cui ritornello dice “Che cos’è la destra, cos’è la sinistra” e continua evocando luoghi comuni in cui identificare le due parti politiche. Nel frattempo davanti a me scorrono le immagini che da tre giorni si trasmettono in tutto il mondo sulla situazione in Venezuela ed ascolto i commenti fatti, in varie trasmissioni televisive qui a Buenos Aires, da personaggi pro o contro Maduro. Di certi il Giorgio nazionale fu il precursore nel descrivere la confusione che ancor oggi regna nel campo ideologico e politico di due ideali, a mio modo di vedere, ormai sepolti con la fine del 900 ma che sopravvivono nell’immaginario di tante persone per giustificare e fingere di non vedere la loro risultante, che è l’oppressione del “popolo sovrano” che dicono di voler rappresentare.
L’arrivo a Caracas di militari inviati da Putin per proteggere Maduro viene da molti immaginato nell’iconografia dell’amico del popolo che dona le sue truppe per difendere la rivoluzione continuata da un presidente eletto da una minoranza e che, al ritorno di un suo viaggio al futuro, ha avvertito l’affamatissimo e indifeso popolo del Venezuela che ha potuto vedere e visitare un Paese quasi angolo del paradiso.
Il fatto è che molti, pure in Italia, credono non solo in questa favola, ma pure che l’intervento russo poggi su basi ideologiche: ma allora viene da chiedersi come mai questi difensori di un bene che è un po’ difficile notare, nello sfascio del Paese, non vedano come lo stesso personaggio, solo tre settimane fa, nel corso della sua partecipazione al G20, abbia offerto aiuti cospicui all’Argentina di Mauricio Macri, così come i difensori del popolo suoi predecessori corsero al servizio della dittatura genocida argentina degli anni 70.
Attenzione: ovviamente non voglio paragonare nemmeno lontanamente il presidente argentino leader di Cambiemos con il sinistro Videla, ma solo tentare di far notare come certi personaggi pure nostrani ancora non si siano svegliati dal torpore degli anni settanta e per poter dormire necessitino di qualcuno che gli racconti le favole.
I populismi, da qualsiasi parte vengano definiti, sono l’espressione incredibilmente viva delle teorie ampiamente descritte da Rosseau nel suo Contratto sociale, testo che ha fornito il carburante conosciuto come “Potere al popolo” ma che poi è sempre finito, da Napoleone Bonaparte in poi, a partorire dittature che hanno creato all’essere umano più danni di tre guerre mondiali.
Voltaire, che la rivoluzione francese la pensava come un cambio generale però dentro le istituzioni, lo aveva predetto: “Se il popolo ragiona è perduto”, scriveva… è toccato al suo arcinemico Rousseau il compito di dimostrarlo.
L’America Latina, verso la fine del secolo scorso, ha costituito l’ennesimo laboratorio di questo esperimento che ha sempre dimostrato di funzionare poco o nulla per servire i suoi principi.
Dopo Cuba, la cui vicenda venne economicamente sorretta dall’ex Urss, nel 2001 è toccato al grande Brasile mettersi alla ruota del venezuelano Chavez, che nel 1999 vinse le elezioni promettendo la ripartizione delle ricchezze del suo Paese al popolo. Lula, ex sindacalista ed eterno perdente elettorale, disse lo stesso. Ma mentre il primo si buttò a capofitto in espropriazioni che in pratica nel giro di pochi anni, vista la distruzione dell’economia seguita a questa manovra ed anche per l’assoluta incompetenza dei suoi fedeli nominati ministri, hanno iniziato il dramma venezuelano, Lula ha da subito cercato un compromesso con la parte liberale del suo Paese; compromesso che, complice anche la scoperta di ingenti giacimenti petroliferi, ha permesso al Brasile di inserirsi tra le prime potenze economiche mondiali, oltre al fatto di essere con l’India la nazione che ha registrato nel tempo la più alta percentuale di passaggi dalla classe povera a quella media.
Pure nel 2003 in Argentina, dopo la crisi del 2001 risultato delle politiche di dieci anni di liberalismo sfrenato di stampo peronista, ecco che con solo il 21% dei voti viene eletto il governatore della provincia patagonica di Santa Cruz Nestor Kirchner. Pure lì l’improvviso aumento del prezzo della soja nel mercato internazionale (da 125 a quasi 500 dollari la tonnellata) provocò una ricchezza che però fu di breve durata, visto che il mandatario argentino esportò il modello di corruzione che tanto bene aveva funzionato in Patagonia. Lo Stato ordinava ad esempio la costruzione di 100 km di una strada, del valore supponiamo di 100 mln di dollari. L’asta la vincevano sempre le ditte costruttrici di un ex impiegato di una banca patagonica prestanome del presidente per 120 milioni: 20 per l’impresa e 100 finivano nelle varie finanziarie che poi esportavano il capitale. La strada ? Dopo 3 chilometri i lavori venivano interrotti… per sempre.
Questa storia è continuata fino al 2015, cioè fino a quando Cristina Kirchner, sua moglie, perse le elezioni a favore del leader del Movimento Cambiemos, l’ingegner Mauricio Macri. Che ricevette uno Stato con le casse praticamente vuote, ma non ebbe mai il coraggio di dirlo apertamente, subito, ad una nazione che ha rischiato di fare la fine del Venezuela. Illudendo la gente su una ripresa istantanea senza avere i mezzi per compierla ed in una congiuntura economica grave.
Nel 2006 e 2007 rispettivamente in Bolivia e Ecuador nascono due regimi politici che per più di dieci anni (quello dell’ecuadoriano Rafael Correa) ed ancor oggi con il boliviano Evo Morales hanno importato il modello populista, ambedue con la foto di Fidel Castro sul comodino della camera da letto. Ambedue iniziati con i soliti buoni propositi ma conditi di un accentramento del potere ben poco democratico. Dopo aver perso le elezioni nel 2017 Correa, sconfitto dal suo compagno di partito Lenin Moreno, è fuggito in Belgio, dove vive tutt’ora accusato proprio dal suo successore del sequestro dell’attivista politico e oppositore Fernando Balda, ma anche noto per la sua repressione nei confronti della stampa ecuadoriana. Stesso discorso per Evo Morales che, seppur ancora al potere, lo esercita da monarca assoluto. C’è da notare però che ambedue i Paesi, come d’altronde il Brasile, hanno diminuito la povertà e posto sotto il controllo dello Stato le fonti energetiche, sviluppando allo stesso tempo l’istruzione. Ma, come nella vecchia Urss, a scapito della libertà e sopratutto, dopo i tanti anni di potere, al prezzo di una corruzione interna notevole.
Il concetto di “potere eterno” e la corruzione sono due delle caratteristiche tipiche del populismo latinoamericano. Record dell’Argentina a parte, dove però il progetto dell’eternità è meramente fallito, in Brasile il passaggio del potere da Lula alla sua delfina del Pt Dilma Roussef ha portato, dapprima per una congiuntura economica e finanziaria mondiale e dopo per lo scandalo di corruzione del “Lava jato” (che ha provocato la detenzione di Lula stesso) ad una serie di errori macroscopici che l’allieva ha commesso, fatti che hanno consegnato il 1° gennaio la Nazione nelle mani dell’ultraconservatore Bolsonaro.
Come si vede il populismo si è spesso trasformato in dittatura più o meno cruenta per il formale rispetto della democrazia, esercitando però un potere assoluto che poco ha a che vedere con una società libera politicamente, economicamente e ideologicamente.
La soluzione della questione venezuelana costituirà, nel caso di una restaurazione di una repubblica democratica, un esempio da seguire con attenzione, mentre in Europa il sovranismo di stampo populista rischia di mietere molte “vittime”. Insomma i figli di Rosseau se da una parte finiscono dall’altra rischiano di moltiplicarsi. Questo finché i popoli si affideranno agli “uomini della provvidenza” anziché puntare ad una reale partecipazione alla vita del proprio paese. Anche questo Gaber aveva predetto: “la libertà non è star sopra un albero… libertà è partecipazione”. Tanti auguri caro Giorgio.