E’ proprio vero che le vie della Storia, come quelle del buon Dio, sono misteriose. Si torna a parlare di regionalizzazione degli insegnanti quasi 20 anni dopo. L’idea spuntò nei primi anni 2000, quando perfino l’Italia ribolliva di idee innovatrici sulla scuola, di diverso tipo si capisce, a seconda che il ministro fosse Berlinguer o Moratti, ma sempre di innovazioni si trattava.
Quella della regionalizzazione era, naturalmente, soprattutto nelle corde della Lega, ma a quei tempi anche i settori della sinistra più – come si diceva allora – riformisti non si tirarono indietro e nacque la formula della “geometria variabile”, che è poi quella che è tornata alla ribalta ora.
Seguì, poi, un periodo in cui si mirò più in alto: riforma dei curriculi, degli indirizzi della scuola superiore, del modo di dare i voti e costantemente degli esami di maturità, quest’ultima una vera e propria fabbrica del Duomo (dicesi, a Milano e in Lombardia, di impresa interminabile come la costruzione e il completamento del Duomo di Milano). Le questioni relative all’organizzazione e gestione del personale passarono in sottordine fino alla legge 107/2015 renziana, che cercò di affrontare il problema dell’articolazione degli insegnanti con un marchingegno infelice che ottenne tante opposizioni (anche nella cabina elettorale) e pochi risultati.
Oggi il tema sembra tornare in auge, dopo i referendum sull’autonomia di Veneto e Lombardia, cui anche qualche altra regione si è accodata e che hanno avuto un esito trionfale, soprattutto forse perché centrati soprattutto sull’aspetto finanziario. Di queste maggiori risorse, peraltro, le virtuose Regioni in questione non potrebbero certo profittare per fare la guerra a Maduro, ma per migliorare i servizi dei cittadini, peraltro già ampiamente di loro competenza. Fra questi in prima fila la scuola.
Perché si è fermata, allora, la regionalizzazione? Se si dà un’occhiata ancor oggi alla maggior parte dei siti nazionali dedicati al mondo della scuola, sembra la si veda come un vulnus insopportabile: un padrone più vicino, una perdita di status, soprattutto il rischio di non potersi più spostare (o di farlo più faticosamente) dalle scuole del Nord, sede inevitabile dei primi incarichi, a quelle del Sud. Per non parlare del rischio ampiamente sbandierato negli stessi siti di dover insegnare come si fa la cassoeula o le sarde in saor. Come se le Regioni avessero approfittato del potere che già la legislazione attuale attribuisce loro di determinare il 20 per cento del curricolo! La triste verità è che, non per rispetto dell’unità culturale nazionale, ma per carenza di motivazioni culturali, se ne sono invece per lo più disinteressate.
Ma quanto la ripulsa dei siti specializzati e di tante organizzazioni sindacali corrisponda in effetti al sentire degli insegnanti delle Regioni eventualmente interessate, non lo si è mai davvero saputo. E l’impressione è che i sentieri della categoria divergano significativamente a livello territoriale: se i 5 Stelle fossero riusciti a eliminare l’alternanza scuola-lavoro oppure riuscissero a decapitare l’Invalsi, non è detto che la maggioranza degli insegnanti di dette Regioni ne sarebbe entusiasta. Si parla di stipendi più corposi, non distribuiti però a pioggia, ma attraverso incentivi e premi, di cui la Cgil dice che serviranno essenzialmente a trattenere gli insegnanti. Come se l’intero corpo docente del Nord fosse a null’altro proteso che ad andarsene…
In realtà potrebbe essere l’inizio di un’articolazione virtuosa della categoria, meglio se basata non tanto su ciò che si fa in classe, ma su ciò che si fa di più. A questo punto da circa trent’anni si levano coloro che sostengono – peraltro con qualche ragione, come sempre avviene nelle cose umane – che il cuore della funzione insegnante è ciò che si fa in classe. Salvo poi, alla puntata seguente, scandalizzarsi per l’inadeguatezza degli strumenti messi in campo a questo fine. E così si torna, come nel gioco dell’oca, al punto di partenza, vero loro obiettivo.
La valutazione qualitativa dell’insegnamento è spinosa dappertutto, anche in Paesi in cui si era partiti lancia in resta a utilizzare i risultati degli allievi nelle valutazioni esterne, perché si stanno incontrando difficoltà sulla misurazione del valore aggiunto degli insegnanti: troppe le variabili in gioco. E un giudizio dall’alto operato da superiori gerarchici suscita nel nostro anarchico Paese immediatamente il detto quis custodiet ipsos custodes?
Quando poi si parla di studenti e genitori, vengono subito evocati gli spettri del populismo becero (salvo che poi dalle indagini dei flussi elettorali risulta che una percentuale molto alta di insegnanti ha votato per il Movimento 5 Stelle). Si deve tornare, perciò, ancora una volta, allo stato giuridico della professione docente e alla necessità di una sua riforma per creare una diversificazione di funzioni stabile e non improvvisata e poco professionale, anche perché sempre più miserabilmente retribuita, come quella che abbiamo visto in questi anni.
Nella situazione paludosa in cui vive oggi il mondo della scuola potrebbe essere un inizio di cambiamento. Pensare di cambiare le cose legiferando dall’alto si è verificato essere impossibile, anche – se non soprattutto – nel Paese patria del diritto (più parlato che giocato). E’ più realistico pensare ad aprire una strada che anche gli altri seguiranno.