È passato un anno e mezzo dalla ignobile Strage di Las Vegas, quando il killer giocatore incallito Stephen Paddock dalla finestra del Mandalay Hotel fece fuoco per ore contro il pubblico di giovani che assistevano al concerto di musica country: 58 morti, 800 feriti e una scia di sangue tra le peggiori che la storia degli Stati Uniti abbia mai assistito. Resta tutto un mistero, pure dopo 16 mesi di indagini sul movente che possa aver “mosso” il terrorista-killer solitario, morto per essersi tolto la vita prima che gli agenti fecero irruzione nella camera d’albergo da dove stava mirando le vittime con precisione imbarazzante. «Non si trattava del Mgm, del Mandalay Bay o di uno specifico casinò o luogo, voleva solo fare il massimo danno e ottenere qualche forma di infamia», spiega Aaron Rouse, l’agente speciale dell’Fbi dell’ufficio di Las Vegas, intervistato dal Guardian. Non ci sono sostanziali novità ma è proprio questo a fare impressione; la vanità, la depressione e la “fama” possono bastare per uccidere 58 persone e compiere uno degli eccidi più impressionanti degli ultimi anni?
SENZA MOVENTE E DEPRESSO: UCCISE PER VANITÀ?
«Il killer ha agito da solo, con una preparazione meticolosa documentandosi sulle tattiche della polizia, equipaggiamenti delle teste di cuoio, tempi di intervento», lo riportano gli agenti speciali, citati dal collega Guido Olimpio sul Corriere della Sera. Aveva 64 anni, una storia tormentata e un padre criminale ma non ha lasciato alcun indizio o messaggio che possa spiegare il perché abbia compiuto una strage come quella di Las Vegas: una assoluta banalità del male che stordisce ancora oggi a 16 mesi di distanza. Gli investigatori non escludono che Stephen Paddock abbia subito il «fascino» e il passato del padre ma non può spiegare tutta la rabbia e cattiveria che si è generata in lui quella notte dell’1 ottobre: si pensa che abbia studiato i casi precedenti di stragi per “battere il record di vittime”, come fosse un gioco di quelli che faceva in maniera incallita ogni giorno. Solo che questa volta c’erano i fucili e le munizioni, quelle vere: nel report dell’Fbi si sottolinea come non avesse un piano di fuga, voleva semplicemente suicidarsi prima di essere beccato dagli agenti. «Aveva chiuso con tutto, era pronto al sacrificio finale, prevedeva di portarsi dietro tanti esseri umani», spiega ancora il Corriere: voleva essere Stephen a decidere del destino della sua compagna – mantenuta e mandata nelle Filippine per garantirsi una vita anche dopo la sua morte – e soprattutto di quelle 58 persone “sacrificate” al folle altare della sua vanità.