“Spegni il cervello e lascia parlare il cuore”, si sente dire da Rocky Balboa in Creed 2. È la filosofia cinematografica di Sylvester Stallone come autore, qui applicata a un film non diretto da lui (ma scritto), ma che segue il Creed del 2016 che del più celebre Rocky era un po’ sequel e un po’ spin-off.
Il film, diretto da Steven Caple jr. vede il figlio di Apollo ormai pugile vincente e affermato, anche grazie all’allenamento di Rocky. Quando dal passato però riemerge il fantasma di Ivan Drago – che uccise il padre – nella forma del figlio Viktor che lo sfida, la serenità si incrina e obbliga Adonis a chiedere: per cosa combattere?
Stallone scrive assieme a Juel Taylor, Sascha Penn e Cheo Hodari Coker un dramma pugilistico che è soprattutto una storia “shakespeariana” di padri e figli, di cosa e come educare i figli, secondo quali principi, partendo dal punto di vista problematico della mascolinità e dell’espressione dei sentimenti, dell’integrità fisica ed emotiva.
Stallone come autore ha sempre fatto i conti con il rapporto tra il proprio corpo e i valori che trasmetteva e come pochi altri a Hollywood ha saputo rendere conto allo spettatore di cosa significa invecchiare, di come appaiono un mito e un’icona mentre passa il tempo. In questo caso, Creed 2 riflette anche più del primo sull’eredità e lo fa, coerentemente con il proprio credo di autore, attraverso l’uso dei sentimenti e del proprio corpo: che in questo caso tende a scomparire, a mettersi di lato, a preparare un’uscita di scena.
Non è un caso che il film cominci con i due Drago e che finisca anche su di loro, che siano loro due e il loro dramma familiare a definire l’andamento del film (il finale sul ring è il momento più bello del film), e non è un caso che Stallone entri in scena inquadrato da lontano, fuori fuoco attraverso uno specchio: Creed 2 parla della sparizione dei padri (e della resistenza delle madri) più che del loro simbolico assassinio e lo fa mettendo in campo i valori essenziali del cinema americano, ovvero l’azione e la narrazione, fuse nel gesto del pugilato – tra i più cinegenici possibili – che diventa quindi anche un modo per Stallone, attraverso il mestiere di Caple jr., di riflettere proprio sul meccanismo del racconto nello sport.
Il film ricalca un po’ troppo pedissequamente lo schema di Rocky 4 (per fortuna non la forma pubblicitaria e anabolizzata), ma proprio sul rapporto tra identità e differenza – tra i film così come tra padri e figli, con i giovani che hanno la possibilità di riparare gli errori paterni e i padri che lottano per redimersi dai loro – fonda la sua forza, sostenuta da una regia che torna alla base della costruzione emotiva, senza effetti inutili, senza sensazionalismi tecnici. Spegnendo (apparentemente) il cervello e lasciando lavorare il cuore. Perché alla fine, basta un abbraccio per conquistare il mondo.