Ci si sta avvicinando alle elezioni europee, anche se pochi ne parlano pur comportandosi come se fosse in atto una campagna elettorale verso ciò che, all’interno di numerosi singoli Stati (tra cui l’Italia), verrà considerato come un grande sondaggio di opinione tra partiti e movimenti in competizione tra di loro (e basati su “blocchi sociali” molto differenti, ove non opposti), pur se costretti dai numeri del destino cinico e baro a governare insieme.
Non solo nel nostro Paese, forze politiche cresciute negli ultimi anni, e considerate euroscettiche o europerplesse, non si propongono più di uscire dall’Unione europea o dall’eurozona (come alcuni dei loro leader sostenevano appena due-tre anni fa), ma di “cambiarla”. La Brexit, chiamata, in una copertina del settimanale The Economist, The mother of messes (La madre di tutti i pasticci) ha fornito una lezione eloquente: un negoziato dove si tratta solo di come contenere e ripartire i costi (è appurato e ormai dato per scontato che nessuno ne ricaverà benefici), ha insegnato – come dice Dennis MacShane, saggista e ministro agli Affari europei ai tempi di Tony Blair – che abbandonare l’Ue o l’euro porta solo guai. Inoltre, le indagini demoscopiche condotte sinora indicano che due terzi dei seggi del prossimo Parlamento europeo andranno verosimilmente ai partiti europeisti tradizionali, come il Partito popolare e il Partito socialista europeo. Tuttavia, anche i partiti europeisti esprimono il desiderio di cambiamento.
Sinora né gli euroscettici o gli europerplessi, né gli europeisti hanno declinato in programmi concreti quale “cambiamento” auspicano e quale strada vogliono percorrere per arrivarci. Nelle prossime settimane dovranno farlo. Questa testata si propone di commentare obiettivi e strade per conseguirli man mano che verranno articolati. In questa prima nota, sembra utile soffermarci su alcune utili riflessioni sul cambiamento formulate da europeisti che avrebbero meritato eco sulla stampa e non ne hanno avuta.
Le prime sono quelle di Giuliano Amato, espresse il 17 gennaio nella prolusione per l’inizio dell’Anno Accademico all’Università La Sapienza di Roma. Il testo – dal titolo Dall’idea di Europa alla costruzione europea – è stato pubblicato il primo febbraio dalla rivista on line “Astrid Rassegna”. Amato non pone obiettivi puntuali e non delinea un tracciato specifico, ma analizza con rigore i punti di forza e di debolezza della costruzione europea e sottolinea come le conseguenze (delle carenze dell’Ue, ndr) si vedono, non solo nei Paesi in cui quei movimenti hanno conquistato la maggioranza, ma anche negli altri, dove i partiti più moderati, per il timore di essere sbalzati di sella, fanno sempre più proprie le istanze delle estreme. Ma conclude con grande speranza in mutamenti positivi, non solo a ragione del rafforzamento delle istituzioni europee, ma soprattutto a motivo delle nuove generazioni di “giovani europei” che stanno emergendo e che saranno comunque orientate al cambiamento pur restando in un quadro “europeo” poiché dalla scuole elementari studiano in classi multietniche e man mano che avanzano nella loro formazione, grazie a migliore apprendimento delle lingue, a frequenti viaggi in altri Paesi europei e a programmi come Erasmus acquistano, accanto alle loro identità nazionali, una sempre maggiore “identità europea”.
Due saggi importanti sul tema del “cambiamento” sono apparsi nel fascicolo del Journal of Common Market Studies, un periodico interdisciplinare di saggi nato a Oxford 57 anni fa. Il primo (“The Transnational Constitution of Europe’s Social Market Economies: A Question of Constitutional Imbalances?” ) è di Poul F. Kjaer della Copenaghen Business School ed evidenzia come la “Costituzione economica” dell’Ue sia cambiata più di quanto sia stati evidenziato negli anni della crisi iniziata nel 2008: si è spostata da paradigmi keynesiani a paradigmi monetaristi, proprio quelli a cui sembrano opporsi le forze politiche euroscettiche ed europerplesse.
Non basta però tornare ai paradigmi keynesiani o neokeynesiani per andare verso un cambiamento costruttivo. Lo sottolinea l’ampio saggio di Maurizio Ferrera (Università di Milano) e Carlo Burelli (Università di Genova) sulla solidarietà tra Nazioni e sostenibilità politica nell’Ue dopo la crisi (“Cross National Solidarity and Political Sustainability in the EU after the Crisis”). In breve, occorre invece promuovere i principi di solidarietà intercomunitaria che i “padri fondatori” dell’Ue avevano ben presenti come essenziali per combattere tendenze centrifughe. Tali principi si sono in parte persi nella costruzione europea degli ultimi decenni, ma un’analisi empirica mostra che hanno un forte sostegno “popolare”.
A questo riguardo è interessante uno studio freschissimo del Fondo monetario internazionale (Populism and Civic Society – Imf Working Paper No 18/254,) di cui sono autori Tito Boeri (Università Bocconi), Prachi Mishra (Goldman Sachs), e due economisti del Fondo, Chris Papageorgiou e Antonio Spilimbergo. Dato che i populisti sostengono di essere gli unici rappresentanti legittimi del popolo, ciò vuol dire che non c’è spazio per i corpi intermedi della società civile? È un interrogativo importante perché da Tocqueville in poi le associazioni e i corpi intermedi sono considerati fattori chiave per una sana democrazia. L’analisi empirica riguarda l’Europa, che ha una lunga tradizione di associazionismo e di gruppi intermedi, e l’America Latina che ha, invece, una lunga storia di vari tipi di populismo. Lo studio dimostra che coloro che appartengono ad associazionismi e gruppi intermedi sono molto meno propensi a votare per partiti populisti.
Questi non sono che alcuni riferimenti. C’è molto materiale di studio e analisi per articolare programmi per il “cambiamento”. Oltre alla constatazione di Amato che le giovani generazioni non renderanno possibile un ritorno al passato, è importante sottolineare la funzione della solidarietà intercomunitaria e dei corpi intermedi nella governance europea.