Cosa sta succedendo in Europa? La scorsa settimana è passata completamente sotto silenzio una notizia decisamente importante. Nello stesso giorno in cui l’Europarlamento riconosceva, di fatto, Juan Guaidó Presidente del Venezuela e solo il “no” dell’Italia evitava l’ufficializzazione di questo scempio del principio democratico (se invece vi piace che a decidere chi guida un Paese sia d’imperio il Dipartimento di Stato Usa, accodatevi pure al bizzarro concetto di rappresentanza che alberga a Bruxelles e nei suoi principali Stati membri, come dimostrato dagli sviluppi di ieri), l’Ue faceva dell’altro. Annunciava la nascita di un sistema alternativo a quello di pagamento globale Swift, finalizzato alla prosecuzione da parte delle aziende europee del commercio con l’Iran, in barba alle sanzioni Usa.
Una rivoluzione? A metà. Rischiosa. E con imbarazzanti profili di pantomima. Il nuovo sistema tale non è, di fatto. Si chiama Instex (Instrument in Support of Trade Exchanges) ed è stato descritto come mezzo di facilitazione delle transazioni, ma unicamente rispetto a beni con finalità umanitarie, cibo, equipaggiamento medico e medicinali in testa. Di fatto, nulla che serva all’Iran oggi in maniera stringente. Ma non basta, perché a tenere a battesimo il nuovo veicolo finanziario sono i governi di Francia, Germania e Regno Unito. Di fatto, lo stesso Regno Unito che fra meno di due mesi dovrebbe dire addio all’Unione europea. Ma non basta, perché se Instex avrà sede a Parigi e sarà gestito da un esperto bancario tedesco (Per Fischer, ex alto dirigente di Commerzbank), il board di supervisione sarà presieduto proprio dalla Gran Bretagna. La quale, dopo il Brexit, quali ragioni avrebbe di utilizzare un mezzo “europeo” per commerciare con l’Iran, essendo libera di operare in via bilaterale ed eventualmente vedersela con Washington? Mistero.
Ovviamente, in Iran la notizia è stata accolta con entusiasmo: «Questo è un primo passo da parte europea… Ora speriamo che serva a coprire ogni tipologia di beni e merci», ha dichiarato il vice-ministro degli Esteri, Abbas Araqchi. E fonti europee, in effetti, hanno già definito il veicolo di pagamento come “espandibile”. Mossa azzardata, non c’è che dire. Non solo perché Washington aveva fatto capire chiaramente la sua contrarietà attraverso un’operazione di lobbying verso il sistema Swift, al quale si chiedeva di tagliare tutti gli accessi alle banche iraniane, ma perché appare una scelta politica strutturale verso una nuova autonomia europea da Washington, il tutto in un periodo di potenziale riarmo atomico di Usa e Russia.
Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, nel corso di una conferenza stampa a Bruxelles ha infatti parlato di «interessi strategici e di sicurezza a livello europeo da preservare… non vogliamo che l’Iran esca dal programma atomico e torni ad arricchire uranio». E a Washington, dopo aver nemmeno troppo segretamente inviato chiari messaggi minatori verso giganti europei come Siemens, Maersk, Total, Daimler, Peugeot, Renault e altri, diffidandoli dal mantenere rapporti commerciali con Teheran, sono passati alle minacce palesi, ancorché con garbo diplomatico. Il senatore repubblicano dell’Arkansas, Tom Cotton, ha così chiarito il suo pensiero al riguardo: «La scelta è tra fare business con gli Stati Uniti o con l’Iran. Spero che i nostri alleati europei scelgano saggiamente». E l’analista geopolitico Luc Rivet pare non avere dubbi: «Non riesco a immaginare quali aziende utilizzeranno quel meccanismo di pagamento per vendere merci all’Iran. Al di là della scelta europea, i singoli Paesi ritengono troppo pericoloso il rischio di essere scoperti a fare commerci con Teheran dagli Usa». E facendo riferimento all’attuale limitazione dell’uso di Instex per equipaggiamento medico e farmaceutico, prosegue: «Chi produce quegli equipaggiamenti? Pensate che la Siemens li venderà all’Iran? Mai, perché hanno gli Usa come cliente privilegiato per molte merci e prodotti. E Siemens ha paura di perdere il mercato americano. Se anche alcune ditte correranno il rischio, un enorme numero non lo farà. Più facile che lo facciano aziende russe e cinesi ma gli europei sono troppo spaventati da un’eventuale reazione statunitense. Non conosco alcun marchio che oserà utilizzare il sistema Instex».
Perché allora dar vita a quella mossa ufficiale, se si sa che è totalmente inutile e non perseguibile a livello pratico, ma, facilmente, potrebbe irritare senza una ragione reale Washington? Forse perché l’Europa, alla vigilia delle elezioni di fine maggio, è totalmente fuori controllo e si muove come una mosca impazzita e intrappolata sotto un bicchiere? Probabile. E una prima, indiretta conferma di questo, è giunta proprio domenica. In attesa di assistere al Super Bowl come qualche decina di milioni di americani, il presidente Donald Trump ha concesso un’intervista a tutto campo al programma Face the nation sulla Cbs. Incalzato sul tema siriano dalla giornalista Margaret Brennan, il titolare della Casa Bianca ha sganciato una mezza bomba, di fatto annunciando l’ennesimo voltafaccia: «Siamo lì e resteremo lì, dobbiamo proteggere Israele. Voglio tenere d’occhio l’Iran, il quale rappresenta un problema reale». Un messaggio fin troppo chiaro. Verso Mosca. ma anche verso l’Europa, non fosse altro per il timing del cambio di strategia siriana.
Perché, dunque, quel gioco di politica estera di Bruxelles, decisamente rischioso? Soprattutto dopo che giovedì scorso la Germania ha ufficialmente comunicato il suo addio al programma di acquisto di F35 dalla Lockheed-Martin per rimpiazzare i Tornado ormai obsoleti, virando la propria scelta verso uno fra Eurofighter Typhoon della Airbus e F-18 Super-Hornet della Boeing. Un contratto da miliardi di dollari stracciato con l’animo leggero di chi disdice l’abbonamento alla pay-tv. C’è un problema, però, il quale si lega in maniera chiara e allarmante alla decisione di Stati Uniti prima e Russia poi di ritirarsi dal trattato Inf che vieta i missili a medio raggio. E che, di fatto, potrebbe tramutare nuovamente l’Europa in una sorta di avamposto proxy della nuova Guerra Fredda, con un aumento esponenziale di testate Usa sotto egida Nato sul suo territorio.
E se Paesi come la Polonia addirittura paiono pronti ad aprire all’ipotesi di basi statunitensi in patria in chiave anti-Mosca e i Balcani – eccezion fatta per la Serbia – sono ormai un protettorato statunitense, grazie anche al tour dello scorso anno del vice-presidente Mike Pence, c’è un dato che carica di significati ulteriori e strutturali il comunicato del ministero della Difesa tedesco. Solo gli F35, di fatto, sono in grado di trasportare compatibilmente l’armamento deterrente tattico statunitense, un qualcosa che di fatto fa parte degli obblighi di Berlino verso la Nato. Inoltre, Washington deve certificare che quei velivoli possano trasportare le armi nucleari in dotazione. I Typhoon della Airbus, ad esempio, non hanno mai ricevuto tale certificazione statunitense: se Berlino li scegliesse per rimpiazzare i vecchi Tornado, nonostante la loro inadeguatezza e arretratezza tecnologica, significherebbe implicitamente che la Germania si chiamerebbe fuori dallo scudo atlantico?
Trattandosi del Paese che per quaranta anni ha ospitato il muro simbolo della Guerra Fredda e della contrapposizione Ovest-Est, la scelta anche solo simbolicamente sarebbe di impatto enorme. Storico, addirittura. Oppure Berlino vuole solo forzare la mano contro l’amministrazione Trump, puntando su temi con risvolto bellico – Iran, Nato – perché certa di poter sfruttare a proprio favore la spaccatura all’interno del Pentagono dopo l’addio del generale Mattis e l’interim di fatto sulla politica di difesa assunto dal potente consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, la mente dell’operazione venezuelana e dell’addio delle truppe Usa a Siria e Afghanistan (magari per inviare i famosi 5mila militari in Colombia, Paese già scelto come base per i rifornimenti umanitari in stile Achille Lauro da inviare a Caracas per cementare il sostegno popolare al presidente creato in laboratorio, Juan Guaidó)?
Anche qui, complicazione ulteriore: come valutare quel cambio di rotta di Trump sulla Siria, una sconfessione di Bolton e della sua linea o, al contrario, il raggiungimento di un equilibrio, una sorta di tregua armata, fra Pentagono e responsabile della Sicurezza nazionale? Verrebbe da propendere per questa seconda ipotesi, visto che poche ore prima dell’intervista di Trump alla Cbs, proprio il Pentagono annunciava il dispiegamento per 90 giorni di altri 3.750 militari al confine con il Messico, portando il totale a 4.350. Un segnale tutto interno nella lotta con i Democratici per ottenere i 5,7 miliardi di stanziamento per la costruzione del Muro, propedeutico a un compromesso che eviti la ripartenza dello shutdown oppure c’è dell’altro? Ovvero, proprio il nuovo equilibrio fra Bolton e Dipartimento della Difesa? Il quale, giova ricordarlo, ancora oggi è retto dal vice del generale Mattis, Patrick Shanahan. Che, solo accidentalmente, era amministratore delegato di Boeing, parte in causa nella disputa tedesca rispetto al rimpiazzo dei vecchi Tornado e all’addio agli F35. Che Berlino, fingendo di fare uno sgarbo agli Usa, stia invece blandendoli contemporaneamente, avendo già deciso di scegliere gli F-18 Hornet?
Comunque sia, qualcosa di molto delicato, se messo poi in relazione anche temporale con l’annuncio del sistema Instex a livello comunitario e la minaccia diretta di Trump contro l’Iran. Il tutto, a poche settimane non solo dal voto per le europee, ma anche dal quello del 9 aprile per le legislative proprio in Israele. Tira aria di Dottor Stranamore, giova sottolinearlo. Perché Berlino forza così tanto la mano, apparentemente senza un costrutto? Colpa del Pil tedesco, dimezzato la scorsa settimana per il rallentamento globale, essendo passato dall’1,8% di stima dello scorso ottobre all’attuale 1% per il 2019, come annunciato dal ministro dell’Economia, Peter Altmaier?
Fuochino. La risposta è qui, in quella che potremmo definire la maledizione di Weimar. O, meglio, la nemesi di Weimar. Il tasso di inflazione tedesco, infatti, è sceso a gennaio all’1,4% contro l’1,7% di dicembre e, soprattutto, il 2,5% di ottobre. E se lo spettro dell’iperinflazione che lastricò la strada al Terzo Reich è da sempre motivo di allarme ed eccesso di rigorismo da parte della Germania – leggi, Bundesbank -, ora quel calo del grande pericolo viene benedetto una seconda volta. Non perché vi sia un altro Adolf Hitler alle porte, come qualche poveraccio strepita, ma per il semplice fatto che un calo simile, unito alla contrazione del terzo trimestre e al dimezzamento delle stime di crescita, stendono un tappeto rosso alla Bce per interventi emergenziali e condivisi.
Come la Boj. Come la Fed. Come la Pboc. Allarme generale. E, cosa più importante all’interno della nemesi, senza che la Bundesbank stia aprendo bocca sull’operato dell’Eurotower. Ormai da mesi. Persino quando l’inflazione in autunno superò e di parecchio la soglia-obiettivo del 2% e la bolla immobiliare tedesca, gonfiata proprio dalla politica di tassi sottozero della Banca centrale, cominciava a inviare sinistri scricchiolii di espansione reale. Tutti muti, a Francoforte come a Berlino. Avete notato? E il mercato che prezza ormai la probabilità più credibile di un primo rialzo dei tassi da parte della Bce nel 2020, come certificato da Bloomberg e mostrato da questo grafico, giova ricordare che a metà della scorsa settimana il titolo Deutsche Bank ha ripreso il suo calo, dopo che il Governo tedesco ha confermato la sua attività di mediazione fra i management del gigante del credito (e, soprattutto, del trading desk) e Commerzbank, secondo istituto del Paese e già salvato una volta dal default, per una fusione che abbia luogo entro la metà di quest’anno.
«Se è vero, la situazione economica di Deutsche Bank è molto peggiore di quanto si veda dall’esterno. Una fusione con Commerzbank a questo punto non ha alcun senso, visto che offre pochissime possibilità di raggiungere una crescita della clientela», ha sentenziato l’analista di M.M. Warburg, Andreas Plaesier, commentando i cali del titolo di DB dopo la pubblicazione della notizia. Ma attenzione, perché un senso potrebbe averlo se la situazione fosse tale da rendere necessaria la fusione di due debolezze non per creare una forza – bensì, più drammaticamente – solo per sopravvivere all’estate. Mentre ci spacciano l’Italia come epicentro della nuova crisi, riempiendo i giornali con titoloni sulla nostra recessione tecnica (un guaio, per carità), non sarà forse altrove, nel cuore stesso dell’eurozona, il problema esistenziale, quello che potrebbe far implodere l’intera costruzione, ben più rovinosamente che il Brexit?
Una sola cosa è certa: la Germania sta giocando con il fuoco. Non si sa quanto volontariamente, per disperazione o per procura. Ma rischiamo di scottarci tutti quanti, Italia in testa. E una prima conferma o smentita potremmo averla a breve: questa notte, Donald Trump terrà il discorso sullo Stato dell’Unione. Vediamo quali saranno i suoi bersagli. E se l’immonda incoronazione semi-plebiscitaria di Juan Guaidó, ufficializzazione del nuovo concetto di “esportazione/imposizione della democrazia” anche a livello Ue, sarà sufficiente a mitigare le provocazioni strutturali in atto. Ammesso che siano tali, almeno in Germania.