“Penso che un po’ dappertutto, in tempi di grande cambiamento e nei quali non è del tutto chiaro verso dove andiamo, gli uomini siano preoccupati e abbiano, forse, persino paura. Preoccupazioni e paure non si possono proibire, ma non ci si dovrebbe solo lasciar guidare da esse. Come cristiani possiamo metterci con coraggio in un atteggiamento di fiducia nel futuro, qualunque esso sia. Noi possiamo contare sul fatto che il Signore non ci abbandonerà”. Intervenendo a Palermo alla presentazione del libro di Nunziella Scopelliti Ho scelto l’Amore. Una storia, un sì, un’avventura – che racconta la storia dei primi venticinque anni di vita delle Suore del Bell’Amore, una giovane e vivace congregazione religiosa nata a Palermo e presente anche a Monaco -, monsignor Peter Beer, vicario generale della diocesi di Monaco e Frisinga, ha accettato di rispondere ad alcune domande sullo stato di salute della Chiesa nella sua diocesi. Parlando anche di immigrazione, Europa, impegno della Chiesa.
Monsignor Beer, come sta la sua diocesi? Che problemi vive?
Partiamo da un dato sociologico molto generico, ma anche molto diffuso. Quando si pensa alla diocesi di Monaco e Frisinga, si pensa subito al suo influentissimo cardinale e la si ritiene una delle più ricche diocesi al mondo, cuore cattolico della Germania. La conseguenza è: “Dunque questa diocesi non ha problemi”.
E invece?
Invece stiamo affrontando grandi processi di trasformazione e cambiamento, in cui hanno peso sia le tendenze sociali che quelle della Chiesa universale. Uno scenario che inquieta molti credenti.
Quali sono le sfide che affrontate ogni giorno?
Parto da quella che accomuna, credo, tutta l’Europa: l’andamento demografico. Mentre solo pochi decenni fa si poteva contare sul fatto che la maggior parte della popolazione fosse cattolica, la stima odierna su tutta la diocesi vede i cattolici appena sotto al 50% e nella stessa Monaco la quota dei cattolici rispetto alla popolazione urbana complessiva va verso il 30%, con una tendenza in calo. Contemporaneamente la composizione del gruppo dei cattolici si pluralizza, esattamente come quella dei cristiani, soprattutto a causa dei fenomeni migratori. L’immigrazione di cristiani delle Chiese ortodosse dell’Europa orientale determina una pluralizzazione tanto quanto l’immigrazione dei cattolici da tutto il mondo. In 23 diverse comunità di madre lingua della nostra diocesi, circa 265mila uomini e donne cattolici vivono la propria fede conformemente alle tradizioni caratteristiche dei loro Paesi di origine.
Quale ritenete debba essere il vostro compito?
È duplice: in primo luogo, aprire la strada verso la fede per quelle persone che l’hanno persa o che ancora non la conoscono; in secondo luogo, riunire le persone e creare il terreno per una comunità, nonostante le tante differenze. Proprio da quest’ultimo fattore dipende l’accettazione della Chiesa in una società e in uno Stato sempre più secolarizzati.
Come giudica il problema dell’immigrazione? La paura sembra coinvolgere anche larghi strati dei fedeli e del clero. È così anche da voi?
Penso che un po’ dappertutto, in tempi di grande cambiamento e nei quali non è del tutto chiaro verso dove andiamo, gli uomini siano preoccupati e abbiano, forse, persino paura. Preoccupazioni e paure non si possono proibire, piuttosto bisogna affrontarle nel modo adeguato. Possiamo provare paure e preoccupazioni, si devono poter esprimere; ma non ci si dovrebbe solo lasciar guidare da esse, lasciandosi influenzare eccessivamente nelle proprie scelte. Come cristiani possiamo metterci con coraggio in un atteggiamento di fiducia nel futuro, qualunque esso sia. Noi possiamo contare sul fatto che il Signore non ci abbandonerà.
A che punto è il processo di integrazione con gli immigrati? Come è giudicato l’impegno della chiesa locale dallo Stato?
Il consenso di base della società appare sempre più fragile: problemi sociali, di radicalizzazione politica, conflitti religiosi, tensioni culturali, ma anche il crescente individualismo a spese del bene comune, rendono difficile una convivenza e una collaborazione.
E la Chiesa?
La Chiesa fa in un certo senso da contrappeso attraverso la sua autoconsapevolezza. Quanto sia fondamentale per la Chiesa il concetto di integrazione lo dimostrano le frasi dell’incipit della Costituzione dogmatica sulla Chiesa, che recitano esplicitamente: “E siccome la Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano….”.
Questo cosa comporta?
La Chiesa, in quanto segno di unità, si pone come modello antitetico a quanto accade; dimostra al mondo che è possibile anche un modo d’essere diverso rispetto alle presenti condizioni. In quanto strumento la Chiesa contribuisce attivamente ad un autentico miglioramento del mondo.
A cosa si riferisce in particolare?
A tante cose. Prendo per esempio l’ultima: la Giornata mondiale della gioventù appena trascorsa a Panama. Tutti quei giovani così diversi dimostrano ciò che significa avere una fede in comune, un’esistenza in comune. E proprio facendo ciò mostrano che è possibile cambiare la realtà, forgiandola all’insegna di una comunione e un’integrazione maggiore.
Andiamo ora alla Chiesa. Non si può dire che viva una condizione migliore della società occidentale in cui vive. Che ne pensa?
Le asperità della quotidianità del mondo ecclesiastico mettono talvolta a repentaglio la natura di segno e strumento della Chiesa. Si parte con la diceria, tesa piuttosto a seminare discordia, che divide i fedeli negli schieramenti, inconciliabili per la politica della Chiesa, di conservatori e progressisti, a sinistra o a destra, per poi finire non di rado con il rimprovero reciproco di nutrire una falsa fede, di non avere sostanzialmente abbastanza fede, se non addirittura di non averne affatto. Un comportamento del genere non attrae, bensì respinge e perpetua nel mondo solo quelle situazioni che esso già sperimenta.
In questo scenario qual è la missione della Chiesa?
In questo scenario non occorre nemmeno più perseguire la missione della Chiesa di annunciare efficacemente la Buona Novella, per cui la Chiesa si gioca per così dire il suo diritto di esistere, se non prende più sul serio la propria missione.
Qual è, a suo avviso, il dato più grave della perdita di questo compito?
A quali abissi possa portare la perdita da parte della Chiesa della sua natura di segno e strumento per l’unità reciproca delle persone e delle persone con Dio, lo dimostra l’orribile dato di fatto a livello mondiale dell’abuso dei minori nella sfera della responsabilità della Chiesa. Le vittime, le loro anime, la loro dignità, sono state calpestate per poi spingerle, con il silenzio, l’occultamento e le smentite oltre il limite della visibilità, all’isolamento. Le persone oggetto di abuso parlano a tale riguardo di uccisione di Dio, di un trauma spirituale scatenato dal colpevole. Questi ultimi non si sono limitati a ledere nel modo peggiore la capacità relazionale delle vittime nei confronti del prossimo, ma essi, che si vantano di agire in persona Christi, hanno non di rado distrutto nelle loro vittime anche la capacità di credere in un Dio amorevole e premuroso.
Vi sono altri aspetti della vita sociale o ecclesiale su cui la Chiesa dovrebbe intervenire con maggiore chiarezza?
Nella Sacra Scrittura il Signore parla di due comandamenti, quello dell’amore verso il prossimo e quello verso Dio. Di conseguenza noi dovremmo sapere, come Chiesa, cosa si debba fare. Ovunque gli uomini vengano trattati ingiustamente, laddove la loro libertà e la loro autodeterminazione venga minacciata, dove la loro dignità è presa a calci, la Chiesa deve far sentire la propria voce. Essa deve farlo anche là dove gli uomini non possono vivere la propria fede, perché discriminati proprio a motivo della fede o dove subiscono persecuzioni. Tuttavia perché la Chiesa possa alzare la propria voce nella società in modo credibile e chiaro, ha lei stessa un compito da non sottovalutare. Essa deve sempre fare attenzione al fatto che il parlare e l’agire debbano coincidere. Non può essere che all’esterno si presenti quasi come avvocato di Dio e degli uomini, e al suo interno manifesti, tuttavia, esattamente il contrario, mali e abusi.
Come può sintetizzarsi quanto abbiamo detto con riferimento alla responsabilità della Chiesa?
L’autoconsapevolezza della Chiesa deve essere urgentemente ripensata, riportata alle origini, riscoperta, rivitalizzata e rianimata quale segno e strumento di unità. In tal modo la Chiesa riuscirà, da un lato, a corrispondere all’ideale che di lei ha e si auspica il mondo, mentre, dall’altro, la Chiesa potrà conformarsi a ciò che essa stessa deve essere. Il potenziale ce l’ha.
Ci avviciniamo alle elezioni europee nel clima di divisione che prima ha indicato. In definitiva cos’è oggi l’Europa? Tutti sanno dire cosa non dovrebbe essere, ma cosa può ancora essere? Quale è il contributo della Chiesa? Per rifondare l’Europa ci vuole l’unità, ma attorno a che cosa?
La domanda centrale è certamente questa: sulla base di cosa si definisce l’Europa? Sulla base, ad esempio, di successi economici? O della potenza militare? Eppure l’Europa dovrebbe essere fondamentalmente una comunità di valori, nella quale ci sono comuni convinzioni di fondo, che tengano unita una società. Questo include, tra l’altro, l’assumere adeguate posizioni di fronte alla questione della tutela della vita dall’inizio fino alla fine dell’esistenza umana, di fronte alla questione della giustizia sociale, del mantenimento della pace, della protezione dell’ambiente o della custodia del creato e molto altro ancora. Solo quando si tratta delle domande di senso e di valore, può, la Chiesa, in dialogo con altre forze sociali, dare un importante contributo. Da questo punto di vista è sicuramente giusto insistere sul fatto che la fede cristiana è una chance per l’Europa.
Un’ultima domanda: qual è il legame tra le Suore del Bell’Amore a Palermo e la sua diocesi di Monaco?
Non mi soffermo sul grande apporto ecclesiale che esse offrono da tanti anni, quanto su un dettaglio molto significativo. Nel Duomo di Monaco in una cappella, luogo di devozione mariana, c’è un’effige della Santa Madre di Dio che la differenzia dalle molte altre immagini presenti nell’arcidiocesi. Si tratta della medaglia con la Santissima Trinità che le suore del Bell’Amore portano sul loro abito religioso. Questo legame ci è molto caro, oltre all’impegno che da tanti anni offrono per la cura degli abitanti della città. L’effige e la medaglia esprimono il senso della comunione trinitaria, che concilia reciprocamente molteplicità e unità, lasciando a ognuno il suo tratto distintivo, senza escludere il tratto umano. Questo è il miglior contributo della Chiesa al mondo.
(Francesco Inguanti)