Chissà se lo sa, Vinicio Bulla. Vinicio Bulla è – dev’esserlo, anche se non lo conosco – un uomo stupendo. Ha settantanove anni. Ha messo in piedi nel vicentino un’azienda che ora è leader mondiale nel suo settore di mercato, tubi di acciaio speciale per piattaforme petrolifere. Il suo orgoglio è non aver fatto mai un giorno di cassa integrazione, nemmeno nei momenti più difficili, è aver rifiutato di vendere a investitori stranieri, anche quando la situazione era dura e le offerte allettanti. E adesso che ha settantanove anni si è chiesto che fare del non piccolo gruzzolo che ha messo da parte. E ha deciso: ai morti i soldi non servono, meglio lasciarli ai vivi. Ma non ai vivi che già ci sono, sarebbe scontato: ai vivi che devono arrivare, che stanno arrivando, che anche a Caltrano, sull’altopiano di Asiago, nel vicentino, vengono al mondo sempre meno numerosi. E con i risparmi di una vita ha costituito un fondo che ha uno scopo solo: aiutare le famiglie dei dipendenti della sua azienda – sono 150 – a rischiare di mettere al mondo dei figli. Per ogni bimbo che nascerà, infatti, c’è un contributo una tantum – fino a 3mila euro – alla nascita, e uno per pagare nido e scuola materna, fino a 550 euro al mese. Perché lo ha fatto, Vinicio Bulla? Perché vede il suo paese, i suoi paesi, spopolarsi, e vuol dare una mano, semplice e concreta, a mantenerli vivi.
Chissà se Vinicio Bulla sa, dicevamo, che i mercanti fiorentini del Duecento avevano nei loro libri mastri una pagina dedicata a “Messer Domineddio”. Era la pagina in cui annotavano le donazioni a orfanotrofi, ospedali, conventi. Non è proprio la stessa cosa, lo capisco. Ma la radice mi sembra la stessa: una concezione della vita in cui uno non si concepisce da solo, non pensa “mi sono fatto da me”. Una concezione della vita in cui uno capisce che fa parte di un contesto, di una società, di una storia. Per cui se lui è stato più bravo, o più fortunato, lo deve anche a questo contesto, a questa società, a questa storia; e prova a restituire un po’ della fortuna che ha fatto.
Certo, le malelingue dicono che lo fa per la sua azienda, perché se il paese si spopola l’azienda – ora gestita dai figli – chiude. E allora? Che male ci sarebbe? Oggi si fa un gran parlare di impresa sostenibile, di responsabilità sociale dell’azienda, di economia circolare… Come nella Firenze del Duecento: se la mia impresa va bene, ne guadagnano tutti; se la società sta un po’ meglio, ne guadagna anche la mia impresa. Vinicio Bulla fa una cosa buona, aiuta giovani famiglie a mettere al mondo figli; ne consegue un’altra cosa buona, che il paese dove la sua azienda ha sede rimane vivo, e la sua azienda pure. È una partita win-win: ci guadagniamo tutti.
Leggo di Vinicio Bulla, e mi viene in mente un vecchio libro di Michel Albert, Capitalismo contro capitalismo. Spiegava la differenza fra capitalismo renano (lui lo chiamava così, ma c’è dentro tutto quello dell’Europa continentale) e capitalismo anglosassone. Il primo – spiegava Albert – punta da sempre sulla produzione di beni materiali, sul coinvolgimento dei dipendenti, sul rapporto col territorio, sulla solidità a lungo termine e così via. Al secondo interessa la trimestrale di cassa, il fatturato a breve, l’utile comunque ottenuto; per cui compra aziende, spacchetta, licenzia, rivende, e i nomi e le facce di chi sta negli stabilimenti non interessano a nessuno. Nel quarto di secolo passato dall’uscita di quel libro, l’aggressivo capitalismo finanziario di stampo anglosassone – non sono gli unici a praticarlo – si è imposto sempre di più. Meno male che ci sono uomini come Vinicio Bulla, che mantengono vivo un modo di fare impresa umano – e perciò, alla lunga, anche più produttivo.