Baglioni quest’anno ha cercato disperatamente di imporre il suo tema, quello dell’armonia. Ma alla fine è stata la nostalgia a prevalere su ogni cosa. Tutta qui in sintesi la lettura “politica” della sessantanovesima edizione del Festival di Sanremo.
Come spesso capita a chi è costretto a ripetersi, il direttore artistico ha deciso di non abbandonare le scelte fortunate del 2018, lasciando la musica italiana al centro dello spettacolo (ospiti stranieri non pervenuti) ma anche puntando senza troppe incertezze sull’inserimento di un buon numero di giovani artisti venuti alla ribalta in questi ultimi anni e che sono espressione di generi musicali che oggi dominano le classifiche.
Così, anche se buona parte degli artisti in gara sembravano degli sconosciuti agli occhi del grande pubblico adulto, i 24 concorrenti non hanno deluso le attese. Il festival ha subìto in questi anni l’impatto dirompente dei talent show (anche visivamente: la scenografia e i roboanti giochi di luci sul palco dell’Ariston ricalcavano smaccatamente quelli di XFactor) che hanno sfornato con continuità giovani di belle, ma spesso non durature, speranze. Quelli sì, i talent, sono ascensori sociali perfettamente funzionanti. E poiché i giovani italiani già sono una bella e colorata miscellanea di popoli ed etnie, anche Sanremo assomiglia sempre di più ad una nazionale di calcio tedesca, e cioè un miscuglio di talenti di ogni origine e provenienza. Ne è piena dimostrazione la vittoria un po’ a sorpresa di Mahmood con “Soldi”.
Eppure colpisce di questa edizione la presenza pervasiva di vecchie glorie e chiome bianche o generosamente brizzolate, ben distribuite lungo tutta la scaletta del programma: Baglioni, Bocelli padre, Riccardo Cocciante, Rocco Papaleo, Ramazzotti, Venditti, Ligabue, Umberto Tozzi e perfino Raf, che hanno riproposto canzoni che in alcuni casi vantavano una stagionatura di almeno 25 anni.
Sono proprio loro a rendere il festival un prodotto assai gradito al tradizionale pubblico di Rai1, che come sappiamo è costituito per oltre il 50% da over 60.
Diciamo la verità, queste presenze non sono apparse solo come il contorno di un evento che avrebbe dovuto avere al suo centro la competizione tra cantanti appartenenti a generazioni molto diverse tra loro, ma è successo esattamente il contrario. L’iniezione di giovani è stata usata come copertura per una ennesima “operazione nostalgia”, che ogni anno inchioda 10 milioni di italiani davanti a un televisore.
A riprova che la nostalgia sia la vera chiave di lettura di questo Sanremo, leggiamo ovunque confessioni più o meno di questo tipo: “Sì è vero, ho odiato il festival per almeno 10 anni. Ma poi si è capito che Sanremo non faceva male a nessuno, ed ora non ce ne perdiamo nemmeno un minuto”.
La nostalgia è anche il modo per tenere lontano la politica da Sanremo. La polemica sulla frase di Baglioni a proposito dei migranti è stata chiusa dal monologo di Bisio la prima serata. Considerare Baglioni un pericoloso sovversivo, ha detto in sostanza il comico, è “una minchiata pazzesca”. D’altra parte in passato Baglioni è sempre risultato inviso ai coetanei “rivoluzionari” proprio per via di quelle sue canzonette mielose e appiccicose, quei testi sempre privi di un riferimento che fosse uno ad una qualche lotta sociale, ad una minoranza, un’ingiustizia, ad una guerra in corso in qualche angolo del mondo. Del resto alla nuova direttrice di Rai1 Teresa De Santis, a cui è stata assegnato un posto in una prima fila semovente che la sballotava in continuazione da un lato all’altro del teatro, interessava di più che questi eterni giovanotti canuti, tra l’altro molto permalosi, non trovassero scuse per lavorare male e poi addebitare ad altri un eventuale insuccesso.
La direttrice – che si è beccata anche un tapiro da quelli di Striscia – è stata molto attenta a che tutto procedesse con il minor danno possibile. Gli ascolti non sono andati bene come l’anno precedente e il prodotto è apparso a tutti un po’ stanco. Situazione ideale per iniziare a pensare ora alla prossima edizione senza la preoccupazione di sostituire un team legittimato da un eccessivo consenso popolare. Serve più coraggio e soprattutto provare a liberare il festival da questi continui rigurgiti di passato, perché diventi un luogo dove ragionare di futuro senza paure. Il consenso non si conquista una volta e per sempre. D’altra parte anche a Baglioni e soci appare evidente che – di questi tempi – l’unica alternativa possibile per continuare a dire la propria e rimanere al festival è “candidarsi e farsi eleggere”…