Il discorso di Donald Trump sullo Stato dell’Unione, nel lessico statunitense “Sotu”, cioè State of the Union, ha creato forti reazioni nell’opposizione Democratica. Opposizione rappresentata visivamente dal beffardo applauso di Nancy Pelosi, neoeletta presidente della Camera dei rappresentanti dopo la vittoria dei Democratici alle elezioni di midterm dello scorso novembre. Il “Pelosi clap” è diventato virale, una specie di bandiera per gli oppositori di Trump, e potrebbe far pensare a una prossima candidatura alla Casa Bianca di questa settantottenne Democratica, che siede alla Camera da più di 30 anni. Una candidatura particolarmente pericolosa per un’altra possibile candidata: Hillary Clinton, anch’ella decisamente favorevole all’aborto.
Accanto ai soliti temi dell’immigrazione, del muro con il Messico e relativo government shutdown, di cui è possibile una seconda edizione, della politica estera e dei temi economici, un fattore di forte contrasto è stato l’aborto. Nel suo discorso, Trump ha difeso con forza il diritto alla vita del feto nel seno materno, criticando aspramente la recente legge pro-aborto dello stato di New York e i tentativi similari dei Democratici in Virginia. Si è così riaperto lo scontro tra pro-life (in favore della vita) e pro-choice (in favore della scelta) che ha segnato da molto tempo il dibattito non solo politico, ma anche culturale e sociale, negli Stati Uniti.
Da parte Democratica si è accusato Trump di voler usare la questione dell’aborto per rafforzare la sua pericolante posizione in vista delle prossime presidenziali: in questo modo, si sostiene, potrebbero tornare ad appoggiarlo molti di quelli che lo hanno votato nel 2016, ma che sono ora delusi dalle sue politiche. Insomma, la lotta all’aborto come bandiera da opporre al “Pelosi clap”.
Tuttavia, occorre ricordare che la posizione di Trump sull’aborto non è stata sempre univoca: nel 1999 aveva dichiarato di essere “molto pro-choice”, ma che la sua posizione pro-life è diventata sempre più netta con la sua elezione a presidente. D’altra parte, la continua e vigorosa campagna in favore di un sempre più ampio diritto di aborto non è di certo estranea al successo di Nancy Pelosi, femminista e cattolica.
La divisione tra “pro-choice” e “pro-life” si è sempre incrociata con quella tra Democratici e Repubblicani, essendo i primi in maggioranza a favore della “scelta”, i secondi tendenzialmente contrari all’aborto, o quantomeno a una sua eccessiva liberalizzazione. La nomina da parte di Trump di due giudici “conservatori” ha ispirato nei Democratici il timore che la Corte Suprema possa cancellare la sentenza, la cosiddetta Roe v. Wade, che nel 1973 rese legale l’aborto negli Stati Uniti. Da qui il nuovo attivismo dei Democratici, tra i quali sembra aver perso peso la parte antiabortista, per proteggere il “diritto di aborto” attraverso leggi statali, mettendolo così al riparo da una nuova sentenza contraria della Corte.
E’ questa una delle ragioni per cui, secondo Andrew Cuomo, governatore Democratico e cattolico dello stato di New York, occorreva approvare rapidamente il Reproductive Health Act, la legge statale che amplia le possibilità di aborto praticamente fino al momento della nascita. Questa legge ha provocato forti reazioni negative da parte delle gerarchie ecclesiastiche e, più in generale, nel mondo cattolico, ma è stata contestata anche da molti ambienti protestanti ed evangelici e da una parte della comunità ebraica, anch’essa molto divisa sull’argomento. La questione dell’aborto è infatti prepolitica, anche se la politica cerca di strumentalizzarla, e origina da una contrastante concezione della persona e della vita, e di chi ne possa disporre.
Non vi è quindi dubbio che l’aborto avrà un ruolo importante nelle campagne per la scelta dei candidati per le elezioni del 2020, accanto agli altri temi più tradizionali, come l’economia, l’immigrazione e la politica estera. Non sarà una campagna facile per nessuno dei due partiti, nemmeno per i Repubblicani, molti dei quali non hanno ancora “digerito” Donald Trump. Ancora più difficile sarà per i Democratici rispondere allo slogan “America First”, ora che è evidente come sia finito, o stia finendo, il “secolo americano” e abbia perso impatto il richiamo al cosiddetto “eccezionalismo americano”.
Inoltre, i Democratici devono combattere al loro interno con un progressismo che si distacca dal tradizionale liberalism Democratico, di cui Pelosi e Clinton sono rappresentanti di successo, fondato sui cosiddetti diritti civili. E’ il progressismo sociale di Bernie Sanders, sconfitto alle ultime primarie contro la Clinton anche grazie alla forza dell’apparato di partito. Al socialismo, sia pure all’americana, di Sanders si uniscono ora le proposte antisistema di una nuova eletta, la 29enne Alexandria Ocasio-Cortez, nata nel Bronx ed eletta in un distretto di New York. Una delle prime proposte della neoeletta è l’aumento al 70% dello scaglione massimo di tassazione dei redditi da 10 milioni di dollari in su, attualmente al 37%. In fondo, sarebbe un ritorno al passato, prima dei tagli iniziati con Reagan e continuati anche da Trump, tanto più logico ora che le diseguaglianze tra i redditi sono aumentate a dismisura con una concentrazione di ricchezze mai vista in passato.
Anche il mentore di Alexandria, Bernie Sanders, ha fatto una proposta che sta sollevando preoccupazione a Wall Street: ridurre la possibilità per le società di comprare in Borsa proprie azioni, legando questi acquisti al rispetto di salari minimi ai dipendenti. A quanto pare, lo scorso anno sono stati annunciati “buybacks” per più di mille miliardi di dollari, con evidenti effetti al rialzo sui prezzi dei relativi titoli.
Sarà il caso di seguire attentamente le campagne per le prossime elezioni americane, perché potrebbero essere diverse da quelle passate. Tanto più se nel frattempo partisse una procedura di impeachment contro Trump.