Le 2.451,8 tonnellate di riserve auree dell’Italia – terzo Paese al mondo per oro conservato nelle casseforti della banca centrale dopo Stati Uniti e Germania e subito prima di Francia e Cina – tornano a far gola. Il governo non solo vorrebbe varare una norma che dice esplicitamente che quel tesoro, che oggi vale circa 90 miliardi, appartiene allo Stato italiano, ma circola in questi giorni l’ipotesi che, vendendone una certa quota, sarebbe possibile con il ricavato sterilizzare gli aumenti dell’Iva previsti dalle clausole di salvaguardia per il 2020, pari a 23 miliardi. Ma perché l’Italia ha così tante riserve auree? A chi appartengono? E che uso se ne può fare? Lo abbiamo chiesto a Mario Deaglio, professore di Economia internazionale all’Università di Torino.
Considerando anche il Fondo monetario internazionale, l’Italia è un vero forziere, visto che occupa il quarto posto al mondo come detentrice di riserve auree. Come si è accumulato questo tesoro?
Sono l’ultimo frutto del nostro miracolo economico, quando avevamo un surplus commerciale molto robusto. Già alla fine degli anni 50 e fino al 1971 l’oro era tutto in mano agli americani, custodito a Fort Knox, perché gli Stati Uniti, subito dopo la guerra, avevano prestato risorse e tutti i Paesi beneficiari avevano pagato in oro, vinti e vincitori. Ogni lingotto a Fort Knox aveva la sua targhetta con il nome del Paese a cui apparteneva. Dopo il 1971, una volta finito il regime del cambio fisso con il dollaro, gli Usa si sono impegnati a vendere, al prezzo di 35 dollari l’oncia, l’oro alle varie banche centrali e nel corso degli anni, lentamente, sulla spinta iniziale della Francia, noi abbiamo cominciato a riprenderci il nostro oro, riportandolo indietro, con navi apposite che avevano la stiva con il doppio fondo, così che in caso di naufragio l’oro non andasse perduto. Così da Fort Knox gran parte dell’oro è stato via via trasferito a Forte Boccea.
Oggi a chi appartiene questo oro? Allo Stato? A Bankitalia? Alla Bce?
L’oro della Banca d’Italia è iscritto a bilancio, al prezzo di acquisto di 45 dollari l’oncia. Al momento della nascita dell’euro, un 20% di queste riserve sono state conferite alla Bce. Ma l’oro penso che appartenga a Bankitalia, visto che è un organo pubblico.
E che uso se ne può fare?
Non può essere utilizzato per quasi nulla.
Nemmeno per ridurre il debito pubblico?
Per saldare i debiti di bilancio no. Tutt’al più, come è già successo, può essere utilizzato come garanzia ultima di un prestito.
Quando è successo?
Nel 1975, nel pieno della crisi petrolifera, lo Stato italiano versava in condizioni peggiori di oggi, era vicino al fallimento e la Germania, seppur malvolentieri, su nostra richiesta concesse un prestito all’Italia, ma pretese come garanzia il nostro oro e – visto che non si fidava di noi – che fosse trasferito all’estero, tanto che ancora oggi è depositato presso la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea, in Svizzera. Ma questo oro è nostro, perché noi nel frattempo abbiamo restituito quel prestito alla Germania. Quindi, le riserve auree servono essenzialmente per interventi di ultima istanza.
Lei, in un’intervista proprio al Sussidiario, suggeriva di utilizzare le riserve auree per domare lo spread…
Infatti, si potrebbe darlo come garanzia al Fmi, utilizzandolo come un fido bancario. Potrebbe essere una buona soluzione. Limiterebbe, e non annullerebbe del tutto, la possibilità che lo spread rimanga alto. Appena il differenziale Btp-Bund si alza, l’Italia potrebbe utilizzare questa linea di credito con il Fmi per rimetterlo in riga.
E la possibilità di utilizzarlo per misure urgenti e non rinviabili?
Credo che con questa formula si intenda che si possono sforare i limiti alla vendita di riserve auree – perché c’è un accordo tra le banche centrali per limitarne la vendita a un miliardo l’anno – per far fronte a eventuali catastrofi o calamità: gli investimenti spesi per far fronte a questi eventi non solo non rientrano nel calcolo del rapporto deficit/Pil, ma possono essere finanziati proprio dalla vendita di riserve auree.
C’è chi dice che le banche centrali europee abbiamo venduto tra il 20% e il 60% delle riserve auree. È mai possibile?
Chi le ha vendute è stata soprattutto la Gran Bretagna, su un arco di 50 anni per la conversione da sterline in oro delle riserve detenute dai Paesi del Commonwealth che via via raggiungevano l’indipendenza. Quindi, un’operazione di vendita lenta e graduale, rimanendo sempre all’interno dei termini dell’accordo di cui parlavo prima. Ma nessun Paese ha venduto, come un colpo di teatro, ingenti quantità, anche perché è vietato, visto che una simile operazione provocherebbe un tracollo delle quotazioni del metallo giallo. Altri Paesi, per esempio la Francia, non ne hanno venduto neppure un grammo.
Il prossimo Central Bank Gold Agreement, l’accordo di durata quinquennale che regolamenta la vendita di oro tra banche centrali, si aprirà nel quarto trimestre di quest’anno e secondo alcune voci il governo starebbe pensando di sfruttare questa finestra: con la vendita di parte delle riserve auree della Banca d’Italia si potrebbero sterilizzare le clausole di salvaguardia 2020, che valgono 23 miliardi. È fattibile?
In quell’occasione l’accordo andrebbe rinegoziato. Noi potremmo anche sfilarci, non firmarlo più, così da avere le mani libere per utilizzare le riserve auree a copertura del deficit. Ma sarebbe un progetto folle, oltre che impossibile da praticare.
Perché?
Si verificherebbero conseguenze assai negative. Innanzitutto, dovremmo fronteggiare l’ostilità di tutti i Paesi produttori di oro, dal Sudafrica al Canada e alla Russia, con pesanti ricadute nei rispettivi rapporti commerciali. In secondo luogo, come detto, il prezzo dell’oro collasserebbe, a causa di una presenza consistente di metallo giallo sul mercato. Infine, l’Italia manderebbe un messaggio drammatico: qualunque titolo di Stato diventerebbe di colpo di Serie B o di Serie C, perché il Paese sarebbe percepito come sull’orlo del baratro.
Quindi, alla fin fine, questo oro bisogna tenerselo stretto?
Bisogna tenerselo e farne l’uso migliore, come garanzia. Per esempio, se varassimo un piano di rilancio straordinario, che si concretizzi in investimenti seri e massicci, e chiedessimo un prestito, non per ridurre il deficit, si potrebbe probabilmente prendere in considerazione l’ipotesi di utilizzare parte delle riserve auree. Ma è un piano, all’interno ovviamente di un progetto più ampio di massima attenzione alle riforme e al controllo ferreo dei conti pubblici, che va preparato con cura meticolosa e concordato innanzitutto con la Bce e con il Fmi, proprio per non creare tensioni o caos sui mercati.
(Marco Biscella)