Il punto comune tra populisti e tecnocrazia

La politica non richiede più una grande competenza: è screditata, demonizzata e praticata in un modo che prescinde da qualsiasi conoscenza

C’è da dubitare che Beppe Grillo, i Casaleggio, Luigi Di Maio e la sua spalla rivoluzionaria Alessandro Di Battista abbiano letto qualche pagina di Benedetto Croce. Dubitiamo molto anche sulle letture di Matteo Salvini e, in genere, su quelle di tanti protagonisti che sono apparsi sulla scena italiana dal 1992 fino a oggi, tutti protagonisti ufficialmente del passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica e quindi alla Terza. In realtà, sembrano figli spaesati dei teorici della “fine della storia” e creatori della “Repubblica delle televisioni” seguita poi dalla più recente “Repubblica della rete”.

A tutti questi nuovi improvvisatori politici consiglieremmo la lettura del 37esimo capitolo di Etica e politica di Benedetto Croce che comincia in questo modo: “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica”. In un libro che oggi, probabilmente, si dovrà mettere all’indice, Croce specifica che l’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo “che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze”. In fondo Croce non fa che smontare luoghi comuni ricorrenti e che oggi sono scambiati quasi per dogmi.

La politica in realtà richiede capacità e competenza a tutti i livelli, particolarmente quando si hanno le doti di leader. Richiede la più ampia preparazione possibile delle conoscenze relative all’uomo e alla società. Non a caso Paolo VI, il cardinal Montini che masticava politica come pochi, la definiva la più alta forma di carità. Non è una scienza, ma la manifestazione più importante e decisiva nell’organizzazione delle comunità e delle società moderne.

Sulla definizione della politica si erano già misurati gli antichi di ogni tempo, dai filosofi greci fino ai condottieri militari. Nell’ultimo secolo prima di Cristo, la grande Repubblica romana fu solcata da scontri sociali terribili che sfociarono nel “cesarismo” e poi nel grande Impero. Nel Quattrocento e Cinquecento italiano si cominciò a concepire specificamente la politica come una “competenza dai mille risvolti”, poco inquadrabili in uno schema preciso, ma basati sempre su una costante, quasi ossessiva, lettura continua della realtà, per raggiungere coesione sociale e un accettabile bene comune: la garanzia del consenso per chi comanda e in fondo un ragionevole benessere generale.

Nella grandi opere di Machiavelli e Guicciardini si intravede la grande competenza dell’artista politico-sociale, che si misura con la realtà all’insegna dell’“arte del possibile”. Max Weber quando parla di politica arriva addirittura al “Beruf”, cioè alla “vocazione”. Nell’epoca del dispotismo monarchico e poi delle grandi rivoluzioni che portano, fra tragedie e conquiste eroiche, alla democrazia, c’è quasi uno schema militare che suggerisce a un polemologo come von Clausewitz di arrivare alla definizione: “La politica è la continuazione della guerra con altri mezzi”. Definizione che sembra risentire dei frammenti di Sun Tzu, polemologo cinese vissuto 2500 anni fa, al tempo dei reami combattenti, ma che sarà studiato sistematicamente nel Kgb sovietico.

Anche in questo caso, in un senso classista e di marcata diseguaglianza, c’è una voglia di bene comune anche se in modo sbagliato e non condiviso. Se Lenin modellò il suo partito declinando Marx con von Clausewitz, non si possono dimenticare le considerazioni pragmatiche dello scozzese Frederick S. Oliver nell’Elogio dell’uomo politico e nell’Avventura senza fine. Tutta questa passione teorica e storica non ha di certo risparmiato le tragedie che ha vissuto nel Novecento il mondo intero, ma ha comunque permesso di trovare gli agganci per ricominciare, migliorare e ritornare su un percorso ragionevole, come è avvenuto nell’ultimo dopoguerra o come ai tempi successivi alla crisi del 1929, anche se solo in alcuni Paesi e in un tempo limitato.

Oggi si assiste invece a qualche cosa di più inquietante. La politica non richiede più una grande competenza: è screditata, demonizzata e praticata in un modo che prescinde da qualsiasi conoscenza e visione. Il risultato, a livello che si può definire mondiale ma che appare ormai patologico in Italia, è che la politica diventa una sorta di prodotto incompiuto e inconsistente, frutto delle “sballottate” tra demagogia populista e tecnocrazia oligarchica. Un mestiere che ti mette in mostra e che delega ad altri la conduzione delle comunità umane.

In questo modo viene dimenticata, o cancellata volutamente, l’essenza della politica, con la formazione di un gruppo dirigente con un leader portavoce di una visione di un progetto a breve, medio e lungo termine. Sia il cosiddetto populismo che l’oligarchia tecnocratica, in un furore autodistruttivo, hanno dimenticato il punto determinante della convivenza sociale dell’uomo. Hanno creato una società “liquida” e ogni singolo uomo è diventato un isolato senza voglia di ragionare e senza speranze.

Il vero problema che si pone oggi è quello di ritrovare il bandolo della matassa, cioè il senso del vivere in comunità e in una società, molto più complessa che in passato. L’obiettivo non è semplice, ma la sfida della ricostruzione della politica è appassionante e può essere lo scopo di una generazione.

Su che cosa si basava la competenza politica? Su una grande conoscenza istituzionale, una grande sensibilità sull’evoluzione del pensiero filosofico, la considerazione complessiva della storia con le cause degli avvenimenti, l’apprendimento di una scienza sociale, in continua evoluzione, come l’economia e soprattutto il contatto permanente con “la strada”, con la realtà che vivono gli uomini quotidianamente, con la frequentazione di quella realtà che erano i corpi sociali.

L’impegno non era solo nella scuola, nei libri, nelle prime associazioni studentesche, nei sindacati, nei partiti, ma era soprattutto nel confronto con la realtà della “strada”, nella dialettica continua con le altre posizioni e le altre visioni. Alla fine, per tanti, la politica era diventata il “sale della terra”. I luoghi comuni di questi tempi, le posizioni contrapposte senza senso, la cancellazione di quello che un tempo si sintetizzava con la formula “pensiero e azione” hanno reso una società del tutto insipida e noiosa, oltre alla miriade di drammatici problemi che una simile latitanza politica comporta. Senza una ricerca e una ricostruzione anche in questo campo si diventa solamente delle comparse sociali, non dei cittadini consapevoli. E la classe dirigente non la si vede più, anche se si continua a discutere noiosamente di contrapposizione tra élites e popolo. Quali élites e quale popolo?

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