La gestione dell’euro in Eurolandia ha comportato il peggioramento delle condizioni dei Paesi meno forti tra gli aderenti alla moneta unica, ma le cui conseguenze si sono avvertite anche negli Stati che hanno conservato la propria banca centrale, in quanto devono assicurare la parità dei rapporti di cambio, anche se rimangono con maggiori gradi di libertà.
Tuttavia, come ho già fatto presente in altri articoli pubblicati sul Sussidiario, la politica monetaria accentrata nella Bce innalza all’inverosimile gli effetti distorsivi, anche in funzione dell’azione “persuasiva” esercitata dai soliti “prepotenti”, che non accetterebbero mai interventi equitativi e di riequilibrio. Oggi gli obiettivi dell’autorità monetaria hanno prodotto effetti differenti a seconda delle condizioni di partenza degli Stati interessati.
L’impostazione protesa alla convergenza europea, dopo vent’anni di sperimentazione, ha evidenziato non solo tutti i suoi limiti, ma anche tutti i suoi aspetti negativi, pertanto urge una conversione verso una banca centrale che venga incaricata del perseguimento di obiettivi con più larghi orizzonti, tali che la sua azione possa accompagnare e gestire la crescita economica dei singoli Stati che ne fanno parte; in particolare, ciò deve avvenire differenziando la sua azione in funzione delle caratteristiche economico-sociali degli stessi Paesi, concordando con i governi azioni coordinate che rafforzino e facilitino gli obiettivi dichiarati.
Ne è riprova un articolo – pubblicato il 6 febbraio sul Sole 24 Ore dal titolo “Perché con il metodo giapponese la Bce può far aumentare del 5% gli utili delle banche italiane” – in cui si mette in evidenza che l’eccesso di riserve presso la Banca centrale europea supera i 1.700 miliardi di euro e consiglia di applicare il metodo della Banca del Giappone, cioè con due tassi di interesse negativi: uno al -2% e l’altro invariato al livello attuale più elevato. In questo modo gli utili delle banche italiane aumenterebbero del 4-5%. Questo darebbe un po’ di respiro alle difficoltà delle banche commerciali, facendo loro recuperare quei margini di profitto e di rischio significativamente erosi.
Tuttavia nell’articolo non si tiene presente che le banche italiane interessate sono di proprietà straniera e che, perciò, l’innalzamento degli utili comporterebbe il trasferimento all’estero degli stessi. Inoltre la proposta, se fosse veramente utile, contraddirebbe la mia precedente affermazione sulla necessità di applicare un approccio diverso da quello praticato finora nella politica monetaria. Ma lo stesso articolo chiarisce che se si applicassero due livelli di tasso negativi, il miglioramento degli utili delle banche dei Paesi core, cioè Germania, Olanda e Francia, arriverebbe fino al 20%. Questo perché il 65% delle somme in eccesso alla riserva base è in mano proprio ai Paesi core e solo il 35% a quelli deboli.
Ciò significa che non sono più il solo a dire che il meccanismo dell’euro, in qualunque modo lo si muova, non fa altro che portare i maggiori guadagni ai più forti, lasciando le briciole a quelli fragili.
I danni che sono stati causati nel passaggio alla moneta a debito sono così alti e numerosi che è divenuto patrimonio comune delle banche centrali l’applicazione del tasso negativo sui depositi che accolgono le eccedenze di liquidità, peraltro immesse dalle banche centrali stesse nel sistema; ma avviene anche che l’immissione di nuovo denaro nel sistema finanziario avviene anch’esso a tasso negativo e, ciononostante, si inneggia al fatto che permane la fiducia.
La politica monetaria in Europa è ingessata, perché si possono risolvere i problemini emergenti se non si valutano le conseguenze delle azioni intraprese, e ciò perché non si ha il coraggio di esaminare le vere cause dei problemi.
Quello che gioca contro è la difficoltà, non tanto di ammettere gli errori (tanto non è necessario farne professione pubblica), ma di prendere decisioni coraggiose e concatenate che annullino gli errori commessi. Rinviare non giova e acuisce il dramma.