La differenza sostanziale tra “La paranza dei bambini” di Roberto Saviano e il film che ne ha tratto Claudio Giovannesi è, oltre gli aggiustamenti del racconto, nello sguardo verso i personaggi: per Saviano sono gangster nonostante siano ragazzini, per Giovannesi sono bambini nonostante siano gangster. Questa sfumatura è anche un ribaltamento di tono che anziché limitarsi a edulcorare la materia narrativa le dà un diverso spessore, un fragranza diversa.
La materia narrativa è, come ci si immagina, non lontana da “Gomorra”, solo che al posto dei criminali ci sono dei giovanissimi ragazzi che, un po’ per voglia di emulazione e potere, un po’ perché spesso i padri sono in carcere e non hanno di che vivere, si dedicano alla criminalità minuta nei quartieri di Napoli tentando la scalata al potere, ingaggiando guerriglie tra clan in miniatura. Giovannesi e Saviano, che scrivono il film con Maurizio Braucci, mettono al centro Nicola e la sua piccola banda e gli costruiscono attorno un dramma di formazione in cui la tragedia è fuoricampo, pressante ma non ancora presente, con il crimine che resta l’orizzonte della storia, non il suo soggetto.
Al centro di La paranza dei bambini (che è stato presentato al Festival di Berlino – dove è stato premiato con l’Orso d’argento per la miglior sceneggiatura – in contemporanea con l’uscita nelle sale), infatti, c’è uno sguardo antropologico più che neo-epico sulla gioventù napoletana – in cui si rispecchiano moltissime periferie mondiali – in cui l’adolescenza e la crescita, le tappe forzate di ogni essere umano prima dell’età adulta, vengono filtrate da un contesto sociale che le distorce senza però annullare il senso di gioco e di scoperta delle esperienze: non è la violenza o la barbarie a colpire lo spettatore (in questo senso un film come Robinù di Michele Santoro resta inarrivabile: è disponibile su RaiPlay), quanto il legame che unisce i personaggi, i soldi, le armi, gli scontri e i “duelli” come prosecuzioni cruente del gioco, dell’età infantile, elementi evidenti nello scarto tra Nicola e suo fratello minore.
Dietro la criminalità non c’è il senso del potere o del denaro, a malapena si scorge la valenza ideologica della “vecchia camorra” contro le nuove leve criminali: per Giovannesi, il senso del racconto e delle vite che romanza è la ricerca di un posto nel mondo – per qualcuno al sole, per altri in ombra -, l’affanno verso la possibilità di sentirsi qualcuno, se non di esserlo: e infatti, il regista attraverso le soggettive o le inquadrature che seguono i personaggi li osserva mentre guardano il mondo che vorrebbero, mentre restano dietro le quinte aspettando il momento per prendersi la scena (come nella bellissima scena al ristorante, in cui il gioco della macchina da presa rivela il loro essere camerieri quando lo spettatore li immagini invitati d’onore).
Giovannesi non può prescindere da Matteo Garrone, soprattutto nel modo in cui crea lo spazio filmico attorno ai suoi personaggi, a come inquadra luoghi nascosti eppure a loro modo monumentali come i vicoli, le cave, i santuari, a come toglie romanticismo alle scene d’azione; ma di suo ci mette anche una capacità notevole di interagire con i ragazzi non professionisti (sua caratteristica peculiare, dai documentari fino al suo film più bello, Fiore) e una vena sottilmente mitica, che guarda a I guerrieri della notte di Walter Hill, che gli permette di superare una sceneggiatura in cui forse si sente un po’ stretto, essendo abituato a raccontare e costruire la narrazione durante le riprese e non prima, come in questo caso: l’inizio nella Galleria Umberto, con l’albero di Natale rubato per farne il “fucarone” in onore di Sant’Antonio nei Quartieri Spagnoli, e il finale, in cui un corteo funebre diventa marcia di guerra, mostrano un talento puro e un cinema vivo.