“Aprile è il più crudele di tutti i mesi”: se Thomas Stearns Eliot vivesse oggi in Italia, cambierebbe il suo famoso verso della “Terra desolata”, perché qui e ora il mese più crudele sarà il prossimo marzo. Allora bisognerà cominciare a fare i primi conti di quest’anno vissuto pericolosamente e confusamente, e allora si scoprirà quel che tutti sanno: i conti non tornano. A marzo Giovanni Tria dovrà mettere al lavoro i suoi uomini al ministero dell’Economia per capire come va la congiuntura e in quale scenario interno ed esterno potrà operare per la Legge di bilancio 2020. A marzo l’Unione europea vorrà fare le proprie verifiche. A marzo le agenzie di rating pubblicheranno le loro pagelle sul debito italiano. Due delle più importanti, Moody’s e Fitch, prevedono una crescita minima, lo 0,2% la prima e lo 0,3% l’altra: rispetto alle loro previsioni del novembre scorso c’è un punto percentuale in meno. In sostanza il prodotto lordo, che ancora non ha recuperato l’intera caduta di dieci anni fa, resterà sostanzialmente invariato.
Il Pil non è tutto, certo; il Pil non fa nemmeno la felicità, non c’è dubbio; ma senza un prodotto lordo in crescita non ci sono nemmeno le risorse per alleviare la povertà, per creare lavoro, per redistribuire il reddito, per finanziare le pensioni.
A quasi un anno dalle elezioni che hanno terremotato il sistema politico italiano, lo scenario è mutato radicalmente in peggio, ma i vincitori di quelle elezioni e il Governo al quale hanno dato vita sembrano non tenerne conto. Lo dimostrano anche le piattaforme politiche con le quali si sono presentati al voto locale sia la Lega, che è uscita finora vincitrice, sia il Movimento 5 Stelle, che sta prendendo sonore batoste. La loro proposta politica chiave è distribuire la torta tra i ceti sociali di sostegno, mentre il problema oggi è produrre la torta prima di dividerla. Questo semplice, ma evidente cambio di prospettiva, non è entrato in testa. È stato così in Abruzzo, sarà così in Sardegna. Si moltiplicano impegni e promesse per le quali a pagare dovrebbe essere lo Stato, cioè tutti i contribuenti i cui redditi però o non crescono o si riducono. Vale per salvare l’Alitalia come per sovvenzionare i pastori sardi e il pecorino romano.
Al dilemma della torta viene contrapposta la teoria della cornucopia: il debito non è un problema, la moneta non ha limiti, purché la stampi uno Stato sovrano, l’inflazione è solo un numero e comunque non esiste più grazie alle nuove tecnologie e ai salari asiatici. Quindi, spendiamo in deficit quanto vogliamo e se l’Unione europea lo proibisce, usciamo dall’Ue come ha sostenuto il responsabile economico della Lega (fino a prova contraria) Claudio Borghi. Peccato che non solo l’economia pubblica, ma anche quella privata, abbia bisogno di finanziarsi sul mercato: le grandi imprese, a cominciare da quelle di Stato, o le banche, a cominciare dalle maggiori, debbono emettere titoli di debito e collocarli presso il pubblico, altrimenti non si reggono. Se il risparmio privato viene assorbito soprattutto dal Tesoro, resta ben poco per gli investimenti: del resto è uno dei motivi per cui la borsa in Italia non è mai decollata.
E oggi, a un anno dal grande ribaltone, l’Italia si trova davanti a questo problema: attrarre risparmio per alimentare le imprese e rilanciare l’economia. I viaggi della speranza del ministro Tria non hanno portato molte speranze. Un banchiere d’affari recentemente tornato dall’Estremo oriente ha confessato che di fronte all’offerta di aziende che pure sono di Stato, quindi in teoria presentano un rischio modesto, la risposta è wait and see, prima ancora di esaminare i bilanci o i piani di sviluppo. Aspettano di vedere che cosa succederà, se l’Italia raggiungerà una certa stabilità politica, se il Governo potrà garantire il rispetto degli impegni, a cominciare da quello fondamentale: onorare i propri debiti. Così va il mondo reale, in barba a ogni nuova o improbabile teoria monetaria.
Il ministro Tria lo sa e non nasconde la sua preoccupazione. Sembrano ignorarlo, invece, gli azionisti di maggioranza del Governo, cioè Di Maio e Salvini. Vedremo martedì come si concluderà la consultazione sulla piattaforma Rousseau, anche se sembra molto probabile che prevarrà il no all’autorizzazione a procedere: il caso della nave Diciotti è troppo ingarbugliato per diventare il casus belli che fa cadere il Governo. Tuttavia, al Salvini salvato (scusate il bisticcio) il M5S chiederà in cambio il blocco della Tav. Non solo: il leader leghista vuole fare il pieno anche in Sardegna e si dedicherà anima e corpo alla campagna elettorale (la rivolta dei pastori lo dimostra) per tutta risposta, Di Maio cercherà di fermare l’arrivo del metano, cavallo di battaglia sia del candidato della Lega, l’indipendentista Solinas, sia dello sfidante del Pd Zedda: “Noi siamo per il no”, ha detto Desogus che corre per i pentastellati.
La sfida per il primato tra Salvini e Di Maio si combatte con una guerriglia a tutto campo, dal territorio al governo, tra due impostazioni del tutto diverse. Come si può dar torto a banche e fondi di investimento, che siano giapponesi, australiani o di tutto il mondo, se vogliono capire come va a finire prima di impiegare i loro quattrini in progetti e opere che forse non vedranno mai la luce? Hai voglia di gridare ogni giorno al complotto, le chiacchiere stanno a zero. E la politica deve misurarsi con la realtà.
A un anno dalle elezioni politiche, a tre mesi da quelle europee, mentre si svolge una campagna elettorale permanente, la torta anziché levitare si sfalda e alla fine il povero Tria si troverà a mettere insieme le briciole. La tentazione è di rinviare il più possibile, rinviare tutto, a cominciare dal Documento di economia e finanza, soprattutto spostare in avanti il negoziato con l’Unione europea (magari a dopo le elezioni di maggio) e non offrire alle agenzie di rating materia nuova con la quale fondare il loro giudizio. In fondo anche il ministro dell’Economia ragiona come le vedove scozzesi o i pensionati giapponesi. Wait and see. Prendere tempo. Solo che anche il tempo ha un prezzo e comprarlo è già diventato troppo costoso.