Il dibattito bocciatura sì-bocciatura no è diventato un mainstream che ritorna nei dibattiti di chi si occupa della scuola. Ritorna con una certa regolarità e, ormai, da molti anni, certo da quando il mandato istituzionale del sistema educativo di istruzione del nostro paese ha spostato il suo baricentro da una prospettiva di mera selezione rispetto a standard che misurano l’acquisizione dei saperi disciplinari a quella che mira ad accompagnare al pieno sviluppo le competenze di ciascuno dei nostri giovani. Ovviamente il mezzo legittimo per questo sviluppo è rappresentato da questi stessi saperi, il “proprio” di un sistema di educazione e d’istruzione nazionale, lo “strumento” dell’azione educativa che avviene a scuola. Il dispositivo della bocciatura e della sua validità, dunque, si pone in modo strettamente connesso alla complessa cornice dei diversi risultati di apprendimento attesi e delle diverse modalità di valutazione che essi richiedono.
Detto questo, è evidente che se un allievo presenta un livello di acquisizione di saperi non sufficiente rispetto a una o più discipline, non ha alcun senso fargli ripetere l’intero anno scolastico, mentre appare ragionevole che recuperi il percorso lacunoso con un altro gruppo classe e prosegua regolarmente rispetto alle altre discipline.
Mi risulta, però, assai difficile pensare che un cambiamento di questo tipo possa essere ipotizzato come uno “schema di gioco” su cui esercitarsi nei dibattiti, pur avendo a cuore indiscutibili obiettivi come quelli di combattere la dispersione, di dare alla valutazione il significato che le compete in una dimensione educativa (di certo non esauribile nella misurazione dei risultati quantitativi rispetto all’acquisizione di saperi), di responsabilizzare maggiormente gli studenti rispetto al proprio orientamento.
Può uno “schema di gioco” mettere in discussione effettiva il criterio per eccellenza della nostra scuola, vale a dire la classe anagrafica e tutto ciò che essa comporta in termini amministrativi e didattici? Forse che, argomentando ipotesi che prescindano dall’intreccio indissolubile che lega il dispositivo della bocciatura con il sistema organizzativo della scuola e il pensiero culturale che lo sostiene, si riesce in qualche modo a superare la ricorsiva staticità con cui questa nostra istituzione continua a riprodurre se stessa, nonostante i cambiamenti siderali della società che la circonda e dei ragazzi che la frequentano?
Molto più appropriato, allora, collocare il tema della bocciatura e le eventuali proposte per una sua modifica all’interno di una serie di problematiche che da decenni, invano, necessitano di soluzione. Flessibilità dell’organizzazione della scuola, valorizzazione del percorso professionale dei docenti e vera autonomia delle scuole sono passaggi obbligati perché l’azione educativa e, quindi valutativa, possa aprirsi al cambiamento. Cambiamento necessariamente ancorato alla specificità delle diverse fasi dello sviluppo degli studenti e articolato in una proposta formativa che dia spazio all’opzionalità e alla flessibilità, unici strumenti che possono rendere realizzabile una didattica volta a favorire lo sviluppo di competenze personali, solidamente ancorate alle conoscenze e alle abilità disciplinari acquisite.
Suggerisco, a chi voglia entrare in queste problematiche, una lettura che può evitare eccessivi sforzi di creatività: Annali della pubblica istruzione, Numero speciale Stati Generali, dicembre 2001. Si tratta della puntuale documentazione rispetto alla proposta culturale e pedagogica che ha sostenuto l’avvio di un progetto istituzionale di riforma della scuola italiana, definitivamente affossato nel 2006 da laceranti dibattiti e ideologiche battaglie, sostenute da un incrociato ed eterogeneo schieramento buro-sindacale, nonché politico.
Leggendo queste pagine, si possono trovare alcune proposte interessanti e ancora perfettamente attuali ai fini dei temi precedentemente discussi. Ne elenco alcune:
a) l’articolazione biennale dei due cicli della scuola privilegia nelle classi prime della primaria e della secondaria di primo grado il collegamento con la scuola che precede e, nei licei del secondo ciclo, mette in stretta e fattiva connessione la classe quinta con l’università;
b) l’articolazione biennale prevede che il passaggio alla classe successiva, all’interno del biennio, sia valutato, rispetto alle singole discipline, precedendo che solo il recupero di quelle che hanno avuto risultati insufficienti sia fatto in un gruppo classe diverso;
c) l’introduzione, a sistema, di quote di opzionalità dell’offerta formativa permette, in entrambi i cicli, di personalizzare il percorso di ciascun allievo in una prospettiva orientativa;
d) la gestione della diversa e complessa organizzazione dei gruppi classe che deriva dai punti precedenti è affidata a un docente tutor per ciascuna classe, appositamente scelto e formato, che viene parzialmente staccato dall’insegnamento e affianca docenti, allievi e famiglie nell’organizzazione dei percorsi formativi.
Come sia andata a finire rispetto a queste proposte, certamente migliorabili ma indubbiamente orientate all’autonomia e alla flessibilità di una scuola che accompagna sapientemente lo sviluppo di un giovane, è noto. O forse no, non è noto, perché non si conosce, non si ricorda o non si vuole ricordare. Di certo, immaginare che sulla scuola e sul suo reale cambiamento si sia sempre al punto zero e che nulla si possa imparare da quanto avvenuto è un tratto singolare di questo nostro paese.
L’enorme palazzo della memoria di cui ci parla sant’Agostino appare sempre desolatamente vuoto.