Attenzione, ciò che sto per dirvi non va relegato nella categoria dei nominalismi. Mercoledì sera, mentre in Italia ci sedevamo a tavola per la cena, venivano rese note le minute dell’ultima riunione del Comitato monetario della Fed, quelle in cui si invocava “pazienza” nel percorso di rialzo dei tassi. Detta brutale, quella che ha bloccato tutta la messinscena della normalizzazione dopo i tonfi di mercato di ottobre e dicembre. Il mercato attendeva quel testo per sezionarlo chirurgicamente, roba da CSI New York: un vero esame autoptico in ambito finanziario. Occorreva capire la durata di quello stop e, soprattutto, se questo avrebbe interessato sul medio termine soltanto i tassi di interesse o anche le famigerate redemptions, ovvero la vendita sul mercato di Treasuries e Mbs acquistati durante i cicli di Qe e andati a maturazione. Di fatto, circa 36 miliardi di dollari di liquidità drenati dal mercato ogni mese. Di più, fra giugno e settembre la cifra – stando agli annunci ufficiali – salirà a 50 miliardi. Un salasso mortale, per un mercato che già ora ha la lingua a penzoloni.
E com’è andata? Nulla di fatto. Ma un nulla di fatto preparato, a mio avviso. Strategico. Voluto. Una sorta di ulteriore creazione di aspettativa, quasi un crescendo rossiniano di suspense come in un film giallo, in attesa di scoprire l’identità dell’assassino. E di vederlo morto o in manette. Perché dico questo? Perché letteralmente istanti dopo la pubblicazione, in quello che a tutti doveva sembrare il classico incidente dovuto alla fretta di bruciare i concorrenti, Bloomberg sparava il seguente lancio: BBG: ALMOST ALL FED OFFICIALS WANTED TO HALT RUNOFF LATER THIS YEAR. Ovvero, per l’agenzia finanziaria, quasi tutti i partecipanti al Comitato monetario vogliono fermare la run-off in anticipo già quest’anno. E cosa sarebbe la run-off? Appunto il dimagrimento del bilancio dopo le abbuffate da Qe, la vendita di Treasuries e Mbs. Tappi di champagne in rampa di lancio! E invece, pochi istanti e l’euforia degli indici si è trasformata in una piatta tristezza. Perché a sua volta, l’agenzia Reuters forniva al mercato la propria versione della frase incriminata: REUTERS: ALMOST ALL PARTICIPANTS THOUGHT IT WOULD BE DESIRABLE TO ANNOUNCE PLAN TO STOP REDUCING BALANCE SHEET LATER THIS YEAR. Ovvero, quasi tutti i partecipanti (al Fomc, ndr) pensavano che potrebbe essere desiderabile annunciare, prima che sia tardi, un piano per fermare la riduzione delle detenzioni di holdings della Federal Reserve verso la fine dell’anno. E, in effetti, questo è quanto scritto nelle minute. E capite da soli che fa una bella differenza dire che si ferma la run-off o annunciare un piano per fermarla, perché in questo secondo caso lo stop reale potrebbe avvenire nel 2020 o anche all’inizio del 2021. Ecco perché non si tratta di un nominalismo.
Ora, lungi da me pensare che Bloomberg e Reuters abbiano recitato a soggetto questa pantomima su disposizione di qualcuno, ma è chiaro che se il mercato stava cercando chiarezza e punti di riferimento dalle minute della Fed, è rimasto deluso. Ed è cioè che serviva. E serve. Primo, perché la situazione è troppo fluida e i fronti aperti troppo variegati e delicati per poter scegliere fin da ora il metodo migliore per uscire dal tunnel. O, quantomeno, per limitare i danni. Secondo, perché come vi dicevo nell’articolo di ieri, lo shock monetario da mettere in campo, questa volta, dovrà essere davvero tale. E non potendosi più basare sul controvalore o sull’effetto sorpresa, occorre operare unicamente sulla leva psicologica. Ovvero, portare il mercato a vederlo fisicamente quel proverbiale precipizio, salvo poi intervenire come Bruce Willis o Chuck Norris e salvare il malcapitato con un virile strattone.
Non credete al mio pessimismo? Vi offro qualche numero su cui ragionare nel fine settimana, in attesa dell’esito del voto amministrativo in Sardegna. Sempre mercoledì, il rendimento del titolo a 20 anni giapponese è sceso ai minimi dal 2016. Tutto va bene, nel Sol Levante? No, un chiaro segnale di allerta recessiva. Il dato preliminare PMI manifatturiero nipponico, infatti, a febbraio ha segnato un ritorno in contrazione conclamata a 48.5 dal 50.3 (quindi, ancora espansione) di gennaio: è stata la prima volta dal settembre 2016 che la lettura ha varcato al ribasso la soglia spartiacque del 50. Di fatto, un dato chiaro: le possibilità che il Giappone entri in recessione già quest’anno salgono. E parecchio. Questo, nonostante il 12 febbraio scorso la Bank of Japan abbia festeggiato i 20 anni di anniversario dalla discesa a tassi zero: già, era il 1999 e da allora non si sono più schiodati. Di più, il prossimo 4 aprile saranno 9 anni dall’inizio dell’Abenomics nella sua forma iniziale, ovvero 60-70 triliardi di yen l’anno di acquisti, divenuti l’anno dopo 80. Ecco come siamo messi, cari signori.
E l’Europa? Questi due grafici fanno al caso nostro. Il primo ci mostra lo stato patrimoniale della Fed sotto le presidenze di Obama e Trump, il quale ovviamente ha ancora un anno abbondante di mandato. Parla da solo: da quando la Federal Reserve ha cominciato il suo taper, quello che le minute dell’altro giorno ci dicono avere ormai i giorni contati, il suo bilancio è calato e ora equivale al 19,5% del Pil statunitense. Sempre tanto, ma, oggettivamente, Obama ha operato con maggiore libertà, tanto che per ottenere il suo successo economico di breve termine, più mediatico che reale, Trump ha infatti dovuto inventarsi lo shock fiscale della scorsa primavera, tutto politico e basato sul rimpatrio scudato dei fondi off-shore delle grandi multinazionali. Bene, il secondo grafico ci mostra lo stato patrimoniale della Bce a far data del 15 febbraio scorso: 4,703 triliardi di euro, nuovo record massimo ed equivalente al 42% del Pil dell’eurozona.
Direte voi, come si può raggiungere un nuovo record se il Qe è finito a dicembre? Semplice, perché come vi ho sempre detto, non è affatto finito. Nell’ultima rilevazione, quella scorsa settimana, infatti, lo stato patrimoniale dell’Eurotower è cresciuto di altri 6,3 miliardi di euro, semplicemente perché il reinvestimento dei titoli già in detenzione è stato superiore alle redemptions, ovvero alla vendita di titoli sul mercato. E sarà così per tutto il 2019, quindi – al netto della cessazione degli acquisti diretti pro-quota di obbligazioni sovrane -, la Bce sta ancora sostenendo l’economia e soprattutto i premi di rischio europei. La dimostrazione? Il nostro spread, il quale nonostante la messe di dati macro da mani nei capelli, al massimo è salito di 10 punti base, salvo poi ritracciare il giorno dopo, quando non in giornata. La Bce è ancora operativa e lo scudo funziona, la prova è in quel grafico e in quelle cifre. C’è un problema, però ed è la criticità di cui vi parlavo nel finale dell’articolo di ieri. L’Europa è ormai in recessione, parlano i numeri. E lo è nel suo cuore, visto che se la produzione industriale italiana è crollata del 7% su base annua, quella tedesca (ripeto, tedesca) nello stesso periodo è calata di oltre il 5%: quindi, c’è poco da metterci nel mirino. Se non, ovviamente, a livello strumentale e per garantire a Mario Draghi campo libero per rimettere mano alla mitologica “cassetta degli attrezzi”.
Ed ecco che questo grafico ci spiega quale sia il problema, stando a uno studio appena pubblicato da Goldman Sachs e che copre un settore che non ha goduto e non gode direttamente dello schermo di Francoforte: i mercati azionari europei. Sembra complicato, ma non lo è. La domanda base è una: partendo dai minimi dal 2009, ovvero le macerie post-Lehman, quanto la variazione di prezzo dei titoli è legata agli utili e quanto all’espansione dei multipli di utile? Ve l’ho detto, sembra tecnico, ma non lo è poi tanto, perché parlando come si mangia, equivale a chiedersi quanto il mercato sia dipendente da performance reali (per quanto dopabili) e quanto da interventi esterni di supporto, leggi operatività delle Banche centrali.
Come vedete, l’azionario Usa è di fatto diviso a metà, con l’espansione che ha contribuito per un 46% dell’incremento di prezzo dalla crisi finanziaria a oggi. Di per sé, sia chiaro, già un segnale poco confortante, perché storicamente e statisticamente un “mercato del toro” – e ditemi cosa altro è stato quello innescato negli ultimi 9 anni da Fed e soci – vede quella voce pesare per circa un 25% sui returns di mercato. Qui siamo praticamente al doppio. Ma guardate la colonna dedicata all’azionario europeo: 100%! Di fatto, il mercato dell’eurozona non ha visto crescita degli utili reali nell’ultima decade! E, infatti, se negli Usa l’apprezzamento dei titoli è stato del 303%, in Europa solo del 111%. Significa che negli Usa, la Fed è stata direttamente responsabile per metà dell’upside di prezzo dei mercati azionari dal 2009 a oggi (questo assumendo che i tassi bassi non garantiscano benefici agli utili, cosa che in realtà non è vera), mentre in Europa se non fosse stato per il contributo – diretto e indiretto – delle Banche centrali mondiali, il mercato non avrebbe vissuto alcun apprezzamento dal marzo del 2009 e dai suoi minimi.
Siamo morti. E lo certifica Goldman al termine del suo studio, nelle conclusioni: “Vediamo poche ragioni reali per cui l’espansione delle valutazioni possano essere un driver maggiore da qui in poi. E allo stesso tempo, le nostre previsioni sugli utili rimangono molto basse per tutte le aree mondiali nel 2019, destinate a segnare una marcata contrazione rispetto allo scorso anno, soprattutto negli Usa”. Capito perché la Fed si ferma e, prima di farlo del tutto, ha bisogno di un mercato non più nervoso ma addirittura isterico, quasi sull’orlo del collasso? Perché serve applicare alla finanza la teoria bellica e geopolitica neo-con dello shock and awe, ovvero mettere in campo – o dare l’impressione di farlo – una preponderanza tale di mezzi, una superiorità manifesta e teatrale nella sua drammatica possenza da ottenere un risultato immediato, anche in assenza di reali contenuti e strumenti efficaci, visto che si è operato a livello espansivo per oltre sei anni e in vari ambiti di intervento, dai tassi negativi agli swaps su scadenze obbligazionarie agli acquisti diretti.
Ma l’Europa, cosa farà? Se partirà un contagio finanziario, quasi certamente dall’obbligazionario corporate, che andrà a intaccare pesantemente gli indici, un vero e proprio “mercato dell’orso” di cui i crolli di ottobre e dicembre sono stati solo il trailer, cosa farà la Bce? Finora, l’Eurotower ha infatti operato in maniera diciamo backdoor, ovvero non ha acquistato direttamente Etf come la Bank of Japan, la quale infatti ora è tra i cinque maggiori azionisti delle principali aziende del Paese quotate sul Nikkei, ma ha fornito liquidità alle aziende – moltissime delle quali, quotate – attraverso l’acquisto di bond corporate, di fatto con il badile. E ora? Quegli acquisti sono conclusi, siamo certi che le aste Tltro che con ogni probabilità Mario Draghi annuncerà a marzo, saranno sufficienti a riattivare il meccanismo di trasmissione del credito all’economia reale, attraverso i prestiti bancari? Oppure saranno a malapena sufficienti a tamponare le necessità di roll-over delle banche stesse, di fatto non facendo nulla per le aziende e inasprendo il rischio di credit crunch generalizzato?
E se fosse tardi per imbracciare un nuovo e più potente bazooka, dove andrebbe a finire la capitalizzazione stessa dell’eurozona, dove andrà a inabissarsi l’Euro Stoxx 600? E, domanda finale, quante prede a prezzo di saldo saranno quotate su quell’indice, se sarà davvero bagno di sangue, stando il nulla in cui si è sostanziata la performance equities europea dal 2009 a oggi? Quanto stanno già fregandosi le mani Usa e Cina, nell’attesa, visto che le loro Banche centrali sono già in modalità di rinnovato Qe e in allerta rossa, come vi ho spiegato sia ieri che oggi? È un mercato ormai basato unicamente su supporto monetario e tassi a zero, quando non negativi e su trucchetti creativi tipo buybacks e swaps allegri. Prendiamone atto e lasciamo – anzi, preghiamo e incalziamo – che Mario Draghi, almeno in una prima fase emergenziale, spaventi il mercato con mosse senza precedenti, anche azzardate.
Siamo al redde rationem, quello vero, parlano i dati macro tedeschi e la pantomima emergenziale e mediatica cui è dovuto ricorrere Emmanuel Macron inventandosi quelli che sono, di fatto, i gilet gialli “di Stato”. Capito perché l’altro giorno Bruno Le Maire e Peter Altamaier, ministri di Finanze ed Economia francese e tedesco, appunto, hanno avuto tanta fretta di presentare al mondo il manifesto con cui i due Paesi motori dell’eurozona chiedono all’Ue di rivedere le regole di concorrenza, al fine di favorire il rafforzamento dei cosiddetti “campioni” industriali e tecnologici europei? Ovvero, flessibilità nella valutazione delle fusioni di imprese, tenendo conto che la concorrenza è sul terreno globale e contro mostri come Cina e Usa.
Qualcuno, anche su queste pagine, pare non averlo capito. E ancora gioca a fare il sovranista offeso e indignato speciale alla Mario Giordano, quasi trovassimo divertente giocare a mosca cieca in un campo minato, purché saltino in aria anche gli altri, odiati teutonici in testa. Che brusco risveglio avranno, fra poche settimane. Peccato che ci andremo di mezzo tutti, avanti di questo passo.