In un liceo bolognese, un’ottantina di insegnanti ha sottoscritto l’impegno a dedicare alcune ore al tema dell’immigrazione, sia alla luce delle vicende più attuali relative al nostro paese, sia come questione di grande momento nello scenario globale. Il documento, che ha poi raccolto l’adesione di molte altre scuole della città, segnala l’urgenza di proporre agli studenti uno spazio di dialogo informato, a partire dalla condivisione di dati fattuali ed elementi di conoscenza, capace di sottrarre al sentito dire e all’emotività il formarsi del giudizio di ciascuno. Le severe politiche di respingimento attuate dal governo, scrivono i firmatari, “chiamano direttamente in causa il senso e il modo in cui stiamo svolgendo il nostro compito di insegnanti ed educatori”. “Una scuola che non riesce a facilitare la comprensione e la rielaborazione di quello che accade al di fuori – si legge in chiusura del testo – non svolge la propria funzione”. L’iniziativa ha sollevato un polverone, con tanto di interrogazioni parlamentari e attacchi al dirigente (l’accusa era, ovviamente, di “fare politica a scuola”).
L’episodio invita a qualche riflessione generale sui compiti che riteniamo debba avere la scuola. Sgomberiamo preventivamente il campo. La relazione magister–alumnus, asimmetrica per natura, impone al primo l’osservanza di un principio deontologico che non ammette deroghe, ossia quello che Quintiliano chiamava la maxima debita pueris reverentia: mai la sua posizione può essere usata per esercitare qualsivoglia potere coercitivo o di condizionamento, della mente o delle emozioni, nei confronti dei giovani che gli sono affidati. Nell’ambito di questo generale autocontrollo, rientra anche l’inibizione non solo alla propaganda ideologica, ma anche a qualsiasi forma di persuasione suggestiva. Dato ciò per acquisito, dovrà forse la scuola, per evitare qualunque rischio, proporsi come un ambiente politicamente “neutro”? Quando i docenti bolognesi, nell’esprimere inquietudine per ciò che “accade al di fuori” della scuola, assumono di fatto una “posizione” di giudizio sugli eventi di cui intendono “facilitare la comprensione e la rielaborazione” da parte degli studenti, stanno svolgendo la loro funzione o “fanno politica a scuola”?
C’è molta falsa coscienza, in giro. Per un verso, si chiede alla scuola di non essere “scollegata” dall’attualità, di preparare non solo giovani istruiti, ma anche buoni cittadini; dall’altro, si accredita l’idea che in essa non sia possibile il formarsi di convincimenti politici se non all’insegna dell’indottrinamento. Si vorrebbe un’educazione civica “in ambiente sterile”.
A questo rischia di ridursi, in realtà, la formazione alla “cittadinanza attiva”, formula che tracima da tutti i documenti di politica scolastica degli ultimi vent’anni, di cui nessuno tuttavia si è mai curato di chiarire il contenuto valoriale. Quale sarebbe il cuore della “cittadinanza attiva”? Il “patriottismo costituzionale” di Habermas? La coscienza democratica? La responsabilità? Più citizenship o più civicness? Essa si esaurisce nella condivisione consapevole di un’obbligazione etico-politica o implica altro (solidarietà, orientamento alla non-violenza, rispetto degli altri, tutela dell’ambiente, ecc.)?
Si capisce bene perché nessuno risponde. Se si osservano le proposte sull’educazione alla cittadinanza, ci si trova davanti ad una declaratoria di competenze: sapere argomentare, sapere lavorare in gruppo, sapere ascoltare gli altri. Tutte cose bellissime e importanti, ma esclusivamente strumentali. E’ come se dicessi: per essere un buon vasaio, devi sapere riconoscere i diversi tipi di argilla, sapere lavorare al tornio, sapere usare una sgorbia. Tutto questo, tuttavia, permette di eseguire modelli, ma non è sufficiente per crearne di nuovi. Se l’esercizio della cittadinanza “attiva” si riduce al possesso di determinate competenze funzionali, in esso di attivo resta assai poco. Ecco la falsa coscienza di quell’aggettivo! Verità vuole che la si chiami “cittadinanza conforme”: a scuola si impari ad essere dei buoni esecutori di cittadinanza conforme. Basta dirlo.
Si sappia tuttavia che la richiesta di una scuola politicamente neutra non è affatto una richiesta politicamente neutra. La rimozione di un orizzonte semantico dalle pratiche del discorso e il loro appiattimento ad una tecnica argomentativa disincarnata e astratta non potrà che ridurre la scuola a strumento di conservazione degli assetti sociali esistenti. Il cittadino attivo che dovrebbe uscirne, nel migliore dei casi, sarà capace di esporre un punto di vista, rispettando il diritto altrui di manifestarne di diversi. Ma difficilmente sarà in grado di avere un proprio punto di vista, ovvero di produrre uno sguardo autonomo sulla realtà. Sarà cioè stato abituato a discutere e a pronunciarsi intorno ad alternative, per esempio di ordine morale o politico, tutte interne ad un recinto discorsivo predefinito ed eterodiretto.
Se si vuole invece che la scuola sia un luogo e un momento in cui i cittadini adulti di domani imparano a maturare idee proprie e nuove; se si vuole che essa sia uno spazio nel quale si confrontano inquietudini e domande sul presente per preparare risposte per il futuro, occorre che la politica vi entri con tutta la sua drammaticità, nelle forme di uno studio e di una ricerca aperti alle sfide molteplici che l’uomo ha davanti; uno spazio nel quale i convincimenti si formino nel dialogo tra posizioni di valore, senza che queste vengano ipocritamente scambiate per ideologie. Perché non c’è alcun dialogo vero se non si “prende posizione”.