Tra i candidati agli Oscar 2019 c’è una vecchia conoscenza del cinema mondiale, Spike Lee, che punta alla statuetta per la miglior regia nel film BlacKkKlansman. La pellicola è l’adattamento cinematografico del libro Black Klansman scritto dall’ormai ex poliziotto Ron Stallworth, il primo afroamericano a diventare poliziotto a Colorado Springs. La storia si sviluppa proprio attorno alla figura di Swallorth, dai suoi primi problemi per il razzismo dilagante e implicito nei colleghi di alcuni centrali alle sue mansioni come agente sotto copertura, dalla relazione con la presidente dell’unione studentesca nera del Colorado College alla sua mansione nel dipartimento di intelligence. A proposito del finale del film, Spike Lee ha detto che “BlacKkKlansman è un poliziesco con humor, ma non uscirete dalla sala ridendo”. Nonostante le immagini vintage la sua produzione ci riporta a un contesto attuale e preoccupante: nel film i razzisti utilizzano il linguaggio stereotipato di Donald Trump, con i suoi slogan semplicistici e al contempo brutali. Per Lee “quello che succede ora ha radici in quell’epoca, quando il Ku Klux Klan trovò nuova forza per contrastare i movimenti dei diritti civili”.
SPIKE LEE, LA TRAMA DI BLACKKKLANSMAN
Diamo uno sguardo alla trama del film BlacKkKlansman. Ron Stallworth, notando sui quotidiani l’avviso dell’apertura dei reclutamenti nel Ku Klux Klan, si finge telefonicamente un uomo bianco interessato a unirsi al movimento intrattenendo contatti sia con i capi locali che con il Gran Maestro David Duke, presidente del Ku Klux Klan nazionale. L’operazione si materializza grazie al collega bianco Flip Zimmermann, che impersonando il protagonista, incontra di persona i membri del Ku Klux Klan, partecipando a incontri e all’organizzazione di future iniziative. La trama prosegue utilizzando queste due strategie comunicative con l’obiettivo di sventare un attacco imminente. Il lungometraggio si conclude con immagini della marcia per i diritti civili tenuta a Charlottesville, incluse anche scene dal corteo di risposta organizzato dai suprematisti bianchi, dell’uccisione di Heather Heyer, investita da un’auto guidata da un suprematista.
IL CINEMA DI SPIKE LEE
Fin dagli albori, la filosofia filmica di Spike Lee rientra a pieno titolo in quel processo di auto-descrizione della categoria “black” che parte dalla lotta sui rapporti e sulle possibilità di rappresentazione per arrivare alla politica della rappresentazione stessa, che consiste, citando Stuart Hall (padre putativo dei Cultural Studies), nella “fine di una nozione innocente del soggetto nero essenziale”. Questo si traduce nel riconoscere la straordinaria diversità delle posizioni soggettive e delle esperienze che compongono la categoria culturale “black”, e nello specifico le comunità afro-americane di molti film di Spike Lee. Lui stesso ha definito la sua estetica in questi termini: “Ho sempre ambito, nel caso in cui avessi avuto successo, a tentare di fare un ritratto più veritiero, al negativo e al positivo, degli afroamericani. Non credo che sia necessariamente veritiero, né d’altro canto ha grossa tensione drammatica, un mondo in cui la gente è buona o cattiva al 100%”. A testimonianza di ciò anche una delle sue ultime produzioni: il remake, sottoforma di serie tv di Lola Darling prodotto per Netflix. Stiamo parlando di She’s Gotta Have It e della sua protagonista, una ragazza nera, pittrice di talento che vive liberamente e in modo emancipato la sua sessualità rifiutando di essere catalogata in un qualsiasi stereotipo. La serie porta con sé le principali caratteristiche del cinema di Lee, l’importanza della musica, il virtuosismo dei movimenti della macchina da presa in funzione di un uso iperrealista della fotografia, e l’importanza dei titoli di testa che anticipano le tematiche del prodotto o permettono di immergersi già dal principio nel suo contesto.