Nel ventesimo anniversario della mirabolante notte degli Oscar che ha consacrato Roberto Benigni come mattatore internazionale dello spettacolo leggero, unico italiano – finora – ad aggiudicarsi la dorata statuetta riservata al miglior attore protagonista, celebriamo, con il dovuto spirito critico, il film che tanto successo gli ha consegnato.
Osannato ovunque, soprattutto nel Nuovo continente, La vita è bella è il film italiano che ha incassato di più nel mondo, è quello che ha vinto più Oscar, è quello più visto al suo primo passaggio in tv. Tanti record che, oltre la pura statistica, testimoniano la grande popolarità di un film coraggioso e ben scritto, il fatto indiscutibile che sia stato una lieta sorpresa per il cuore e la mente di milioni di spettatori in tutto il mondo. Ma questo come si concilia con la considerazione critico-storica che vorrebbe un tale argomento (i campi di sterminio nazisti) per sua natura irraccontabile con un’opera di finzione?
Il punto chiave lo evidenzia – involontariamente – il film stesso, nelle parole con cui la voce over del protagonista bambino avviano il racconto: “Questa è una storia semplice, eppure non è facile raccontarla. Come in una favola c’è dolore, e come una favola è piena di meraviglia e di felicità”. Esattamente: tutti coloro che hanno vissuto quell’esperienza, e sono stati fortunati al punto da poterla raccontare, dicono di quella storia tutto – o meglio, di quel frammento della nostra Storia recente – tranne che sia stata una favola. Il cinema, essendo di per sé finzione e solo in seconda battuta documento, poco si adatta a narrare eventi tanto tragici quanto veri. Non verosimili o mimetici del mondo reale, ma proprio veri, accaduti davvero.
Infatti, quando alla fine della Seconda guerra mondiale fu chiesto a diversi registi di Hollywood di montare in un documentario le immagini girate in Germania durante la liberazione del campo di Dachau, la risposta fu sola e chiara: non si può fare. Quello che di inspiegabile, assurdo, inguardabile la macchina da presa aveva registrato in quel campo non poteva proprio diventare nulla di fittizio, manipolato o ricostruito: restava per sua natura un documento puro. Materiale filmato con cui non era possibile effettuare un montaggio, cioè contrapporre punti di vista diversi, operare dei tagli, scegliere cosa mostrare e cosa no. Esso poteva solo rimanere intatto, come grezzo documento a futura memoria. Infatti, quelle immagini rimasero non montate e sostanzialmente sconosciute fino al processo Eichmann del 1962.
Nonostante ciò, il film che un ispirato Benigni ha magicamente cavato dal cilindro, con il fondamentale apporto dello sceneggiatore Vincenzo Cerami, ha indubbi meriti. La scelta di narrare l’orrore indicibile dei campi di sterminio attraverso una sorta di ribaltamento di senso, cioè il gioco collettivo che il protagonista fa credere al figlioletto, coglie nel segno. Consente agli autori di evitare gli stereotipi scontati e patetici di altri film sullo stesso tema, e giustifica la goliardia leggera della sua prima parte, rendendolo equilibrato e narrativamente più coerente nel suo incedere complessivo.
Sul piano visivo invece La vita è bella sconta una messa in scena elementare, a tratti approssimativa, debito dal suo regista allo scarso mestiere specifico. Come è ormai consuetudine nel cinema italiano, a partire dai primi anni Ottanta, a firmare la regia di quest’opera è un attore-autore che non nasce nel cinema, ma altrove. Benigni lavora molto nel teatro leggero, nei recital del tipo one man show (è probabilmente il più grande attore italiano di sempre nello specifico ruolo dello stand-up comedian), nel cabaret, e poi in televisione al seguito della “banda Arbore” prima di approdare al cinema. Tutti ambiti linguisticamente lontani da quello della settima arte, con altre consuetudini formali, altre sensibilità e/o esigenze sceniche – non necessariamente di ordine inferiore -, ma fatalmente diverse dallo specifico visivo dell’arte, o anche soltanto dell’artigianato, cinematografica.
Appare inoltre ambigua la scelta di fare un film di tipo comico-melò, alla stregua dell’illustre inventore di tale peculiare genere Charlie Chaplin. Se da un lato questa forma consente a Benigni di evitare i più lacrimosi luoghi comuni sulla materia, dall’altro il costruire su quel tragico tema un film di finzione secondo gli stilemi del comico-melò, che gli conferisce una struttura da commedia leggera che vira in melodramma per concludersi poi con un parziale lieto fine, è operazione cine-culturale per lo meno discutibile.
Siamo di fronte, nella maniera più eclatante che mai, alla sempiterna diatriba tra cinema come spettacolo di intrattenimento ovvero al cinema come particolare forma d’arte visiva, in tal veste attenta anche alle istanze socio-storiche. Nonostante gli elogi che la comunità ebraica internazionale tributò al film ed al suo autore, la questione di fondo rimane irrisolta: è lecito fare spettacolo sul dramma dell’Olocausto?
La materia è delicatissima, per le tante ragioni che ognuno può immaginare. Tuttavia il cinema è anche un mezzo per raggiungere la sensibilità e la memoria di milioni di persone. Se l’obiettivo è nobile, come il tramandare il ricordo dell’evento più tragico del Novecento, o favorire una serena, per quanto possibile, riflessione su di esso, allora anche La vita è bella è film degno di essere annoverato tra i migliori mai realizzati su quella nerissima pagina della nostra Storia.