E così la notte degli Oscar l’ho guardata anche quest’anno… La giornata si era presentata uggiosa, grigia di una pioggerella insipida, ed era presto diventata triste quanto un messaggio dall’Italia mi aveva raggiunto dicendomi di un caro amico di infanzia, adolescenza e gioventù che se ne era appena andato. Avrei voluto scrivere di lui piuttosto che aspettare la sera per raccontare chissà che cosa di quella fiera delle vanità che è la notte di Los Angeles al Dolby Theatre. Vanitas vanitatum et omnia vanitas, come dice il libro del Qoelet, e quando qualcosa di reale ci colpisce al cuore, come per me oggi.
Tutti lì sul red carpet, vestiti come nessuno si vestirebbe mai. Chi da sirenetta, chi da confetto, chi addirittura da bomboniera, Spike Lee che sembra un controllore del treno e tanti – penso involontariamente – conciati da salami multicolor. Francamente la maggior parte non li conosco neanche. Mentre li guardo e cerco di identificarli scribacchiandone i nomi su un pezzetto di carta mi fermo al pensiero che sia stato molto più importante conoscere l’amico che non c’è più.
Stasera niente “host”, niente padrone di casa a menare le danze di questa sfarzosa celebrazione del cinema e dei suoi protagonisti. Kevin Hart, il comedian che era stato designato, è scomparso dal radar qualche tempo fa quando sono emersi dei suoi tweets di dieci anni fa classificati dai media come omofobi. Così vanno le cose al giorno d’oggi.
La notte degli Oscar è sempre stata un termometro attendibile degli umori del Paese. Sorry, diciamola com’è: la notte degli Oscar ci dà il polso di coloro che dettano la mentalità dominante. Altroché il discorso dello “State of the Union” che ci propinano i presidenti… Ci si aspettava un’altra avanzata delle donne e una rimonta degli African Americans che in tempi recentissimi erano scomparsi dai destinatari delle ambite statuette. Schiavismo e sessismo, due peccati originali innegabili che pare proprio l’uomo bianco non potrà mai lavarsi di dosso. Ce lo si aspettava e in qualche misura c’è stato. Anche la Nike s’è messa di mezzo con un’apologia delle donne travestita da pubblicità.
Tra le cose attese c’è stata anche la santificazione di Freddie Mercury (premio come migliore attore protagonista a Rami Malek) e di tutti i Queen, cosa che ha comportato la sgradevole esperienza di doversi sorbire un tot di volte l’attacco di “We are the champions”, una delle cose più brutte che la musica pop-rock abbia mai generato. Ma tornando agli African-American è stato bello sentir raccontare (non si è visto in TV) della reazione di Spike Lee all’annuncio di Green Book come miglior film. Non contento del suo Oscar come migliore sceneggiatura adattata, di quelli vinti da Black Panther (ma cosa ci faceva Black Panther al Dolby Theatre?) e dal nerissimo Spiderman di Into the spider-verse, arrabbiato come non mai si è messo a sbracciare in segno di dissenso, cercando anche di allontanarsi dalla sala. Ricondotto al suo posto se n’è rimasto con le spalle rivolte al palco mentre il gruppone dei vincitori salutava e ringraziava. I peccati originali non si laveranno mai.
Per fortuna ci siamo goduti un pochino di musica con Lady Gaga e il bellissimo duo Gillian Welch e David Rawlings.
Ma insomma, c’e’ stato qualcosa di umano in questo guazzabuglio di ambizione, vanagloria e ideologia? Si, un momento c’è stato. È quello che l’Academy dedica a coloro che quest’anno se ne sono andati. “In Memoriam”. In un attimo è come se tutto riacquistasse la giusta prospettiva. Come questa mattina quando mi hanno detto del mio amico.