Nella pressoché totale indifferenza dei media, nella vicina Algeria regna il caos. Migliaia di giovani sono scesi in piazza per protestare contro la candidatura per il quinto mandato dell’ottantunenne presidente Abdelaziz Bouteflika, nonostante le notizie relative alle sue precarie condizioni di salute. Scene che inevitabilmente fanno tornare alla mente quel lontano 2010 quando in molti Stati del Nord Africa e del Medio Oriente iniziavano a divampare le rivolte arabe che avrebbero cambiato per sempre le sorti dell’area.
L’Algeria, è doveroso ricordarlo, è stato il primo Paese che ha visto lo scoppio delle proteste. Ciò nonostante, il regime ha potuto evitare una crisi simile a quella dei vicini maghrebini per l’effetto congiunto di due fattori: il timore di tutte le forze politiche e sociali che si potesse ripetere l’esperienza drammatica della guerra civile che sconvolse il Paese negli anni Novanta, e il fatto che le proteste fossero in maniera preponderante di carattere socio-economico, piuttosto che squisitamente politico, come invece accaduto in Tunisia. Questo ha significato che, con la messa a punto di determinate politiche di sussidi e aiuti economici da parte del presidente, una fetta consistente del malcontento si sia placata.
Oggi il quadro è decisamente mutato: gli algerini sembrano aver superato la paura – e forse anche il ricordo – delle migliaia di morti degli “anni di piombo”. D’altra parte la società è cambiata: quasi un algerino su due ha meno di 25 anni ed è figlio di una generazione meno segnata dalle violenze del passato. Oggi, per questi giovani, il cambiamento, per quanto incerto, fa meno paura dell’insopportabile immobilismo di un presidente muto e inchiodato su una sedia a rotelle.
Già durante le elezioni del 2014 si era parlato di un “mandato di troppo”, ma allora la popolazione si era “arresa”. Da quel momento, però, la figura del vecchio leader ha perso, giorno dopo giorno, credibilità. Come dimenticare le immagini del 2016 quando Bouteflika quasi incapace di parlare incontrò il primo ministro francese Manuel Valls? Il video di quell’incontro ha fatto il giro del mondo causando imbarazzo per le precarie condizioni del leader ma anche preoccupazioni per il futuro del Paese. Si potrebbe dire che l’ultimo rais sia tenuto in vita dal suo clan il quale sa bene che, essendoci il vuoto dietro di lui, se crolla lui crolla tutto il sistema.
Se il quadro interno appare piuttosto incerto, molto più lineari sembrano essere le conseguenze di un regime change nel silente gigante algerino.
Se da un lato l’ennesima conferma di Bouteflika permetterebbe di rinviare la resa dei conti fra i clan che oggi guidano il Paese nell’ombra, sfruttando la scarsa lucidità del presidente di cui tirano i fili, dall’altro uno scontro aperto avrebbe conseguenze imprevedibili e pericolose per molti Paesi della sponda nord. Un’Algeria instabile è una bomba a orologeria che potrebbe mettere a rischio l’Europa da un punto di vista energetico e di sicurezza. L’Italia, per motivi economici e di vicinanza geografica, potrebbe essere una delle prime vittime di questa instabilità.
Iniziamo dal settore energetico. Nel sito della compagnia petrolifera italiana si legge che Eni – presente nel paese dal 1981 – occupa una superficie complessiva, sviluppata e non sviluppata, di 3.359 chilometri quadrati. E’ il primo partner della compagnia di Stato algerina, Sonatrach, e il primo fornitore di gas del Paese. Nel 2017 le forniture di gas naturale algerino in quota Eni sono state pari a 13,18 miliardi di metri cubi con un incremento pari a circa il 17% rispetto all’anno precedente. Lo scorso 29 ottobre Eni, Total e Sonatrach hanno siglato un’esclusiva per l’esplorazione dell’offshore algerino. E’ evidente che, nonostante la solidità dell’Eni, una possibile instabilità nel nostro “vicino di casa” potrebbe avere effetti nel settore energetico. La Libia ce lo ha ben insegnato.
Ma i problemi riguardano anche la questione della sicurezza. L’Algeria, per la sua posizione geografica e la ricchezza del sottosuolo, potrebbe essere il territorio ideale per i miliziani dello stato islamico, in fuga dai teatri operativi levantini. Già nel 2015 l’Interpol aveva trasmesso alle autorità locali una lista di 1.500 terroristi che cercavano di eludere il sistema di controllo delle frontiere con il semplice utilizzo di passaporti falsi. Così come è avvenuto nell’ex Jamahiriya, anche in Algeria l’Isis sta realizzando un sistema di alleanze con gruppi jihadisti locali. Inoltre, con le coste libiche più controllate, i trafficanti stanno cercando nuovi lidi da dove far partire i propri barconi.
Il Paese nordafricano potrebbe rappresentare un possibile crocevia per il flusso dei migranti dagli Stati dell’Africa centrale verso il Mediterraneo, divenendo il nuovo hub di un business ancora molto remunerativo. Non è un caso se nell’ultimo anno sono aumentati gli sbarchi di migranti partiti dalle coste algerine e diretti in Spagna e Sardegna. Secondo i dati dell’Unchr, nel 2017, sarebbero giunte nell’isola italiana oltre 1.800 persone provenienti dall’Algeria, nel 2016 erano state poco più di 600. Spesso si tratta, come per gli arrivi dalle coste tunisine, di “sbarchi fantasma”: spostamenti che utilizzano mezzi veloci, come gommoni carenati con potenti motori fuoribordo ed esperti scafisti e che riescono a raggiungere in poche ore le coste italiane, spesso sfuggendo ai radar. Un mezzo piuttosto sicuro anche per possibili terroristi.
Non serve spendere ulteriori parole per spiegare come una transizione “non controllata” potrebbe aprire a un copione già visto: instabilità, conflitti interni, fragilità dell’economia, porosità dei confini con tutti i conseguenti problemi legati alle infiltrazioni jihadiste.
I giovani algerini meritano un presente e un futuro migliore, ma un cambio di regime mal gestito rischia di essere il loro peggiore nemico e una spina nel fianco per l’Italia e per l’Europa più in generale.