Umanesimo integrale è oggi decisamente un libro fuori moda. L’opera più nota di Jacques Maritain, dopo aver vissuto in Italia decenni gloriosi, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, quando l’esperienza politica dei cattolici in Italia sembrava solida e imperitura, oggi è quasi dimenticata. Più citato che letto, Umanesimo integrale è una di quelle opere che si collocano sul sentiero, difficile e oggi incomprensibile, della lettura critica della modernità, anche se il suo uso è stato soprattutto politico. E forse proprio questo utilizzo ha giocato all’opera uno strano scherzo: legarlo stretto al cammino finito, e per alcuni versi condotto al fallimento, dell’esperienza politica dei cattolici in quanto cattolici, ne ha decretato non solo la sconfitta pratica, ma ha oscurato persino le premesse di una diagnosi della modernità che si colloca nel solco tracciato dai grandi critici del Novecento anti-umano.
La parte diagnostica della modernità, o meglio, dell’umanesimo modernizzato, si fonda, come farà più tardi e in una prospettiva totalmente laica il Camus dell’Uomo in rivolta, proprio sul proposito dell’uomo di sfidare Dio sul piano dell’amore e della morte, della giustizia e dell’assurdo. Così, se “con il Rinascimento la creatura fa salire verso il cielo il grido della sua grandezza e della sua bellezza” e “con la Riforma il grido del suo affanno e della sua miseria”, in ogni caso “sia gemendo, sia ribellandosi, domanda di essere riabilitato”. Si è trattato insomma di una sfida dell’umano al divino. Una rivolta innanzitutto metafisica, per dirla ancora con Camus, che ha provocato – sottolinea Maritain – un “inferno interiore dell’uomo in preda a se stesso” su cui tuttavia, occorre riconoscerlo, “sono sboccati incontestabili arricchimenti di civiltà”. Alla radice dell’ateismo, categoria che oggi andrebbe ripensata perché troppo Otto-novecentesca, vi è per Maritain (come per Camus) una sorta di “risentimento contro Dio e una rivincita contro Dio che l’uomo ricusa di mettere alla testa della sua vita perché non gli perdona il mondo e il male – voglio dire l’esistenza del male nel mondo”.
Un ateismo sostanziale che, nella sua declinazione borghese occidentale, ha radici in una concezione dell’uomo nel consumo che nemmeno ha il coraggio di una vera, eroica e radicale rivolta metafisica, ma che nella variante russa, cui hanno dato voce i grandi della letteratura a partire da Dostoevskij, arriva al suicidio come forma estrema di liberazione. L’uomo borghese occidentale è “una produzione farisaica e decadente” che “preferisce all’amore le funzioni giuridiche (non è erotico come afferma Sombart); e all’essere preferisce le funzioni psicologiche (perciò si può dire che non è neppure ontologico).
In questo quadro la religione stessa sembra aver aderito farisaicamente ad una sorta di processo di secolarizzazione (questione su cui si sarebbe soffermato più tardi Augusto Del Noce): “E’ così che – annota Maritain – si doveva giungere troppo spesso ad una naturalizzazione della religione e a utilizzazioni del cristianesimo per fini del tutto temporali”. Una religiosità così trasformata ha fatto del moralismo borghese e dei vizi privati e delle pubbliche virtù il suo caposaldo. Quanto la politica abbia sfruttato questa separazione di piani, antitetica a quella visione “integrale” dell’umano proposta da Maritain, ce l’ha mostrato la cronaca. Ma anche in questo caso ci troviamo di fronte a questioni troppo novecentesche. Pubblico e privato, nell’era digitale, sono categorie che vanno ripensate; un’opinione pubblica promossa al ruolo farisaico di Grande Inquisitore rimette in gioco l’intera questione e soprattutto pone questioni decisive sull’intero impianto morale, pubblico e privato. Ma qui, ciò che manca è la filosofia e forse anche la poesia.
Ma Umanesimo integrale non è solo un’opera diagnostica. Ma si propone di essere anche un’opera politica, in quanto “ideale storico concreto”. E il cuore della lettura politica di Umanesimo integrale sta senza dubbio nell’idea maritainiana di “nuova cristianità” intesa come prospettiva “di un regime temporale o di una età della civiltà la cui forma animatrice sarebbe cristiana e che risponderebbe al clima storico dei tempi nei quali entriamo”.
L’orizzonte di riferimento, non certo in chiave nostalgica, è quel Medioevo che ha realizzato – tra numerose possibilità – “quella concezione della città terrena” capace di garantire al massimo grado possibile “uno stato di giustizia, d’amicizia e di prosperità” e soprattutto “una concezione sacrale del temporale”. Maritain utilizza, per potersi agganciare a tale mito, ben sapendo che è improponibile un ritorno al passato, la categoria dell’analogia: “non è in maniera univoca che tale concezione può realizzarsi nelle diverse età del mondo; è in maniera analogica”.
Così, se “una filosofia dell’equivocità penserà che col tempo le condizioni storiche divengono così diverse da derivare dai principi supremi essi stessi eterogenei; come se la verità, il diritto, le regole supreme dell’agire umano fossero mutevoli. Una filosofia dell’univocità porterà a credere che queste regole e questi principi supremi si applichino sempre alla stessa guisa, e che in particolare il modo con cui i principi cristiani si proporzionano alle condizioni di ciascuna epoca e si realizzano nel tempo non deve variare. La soluzione vera deriva dalla filosofia dell’analogia”. Insomma, “i principi non variano, né le supreme regole pratiche della vita umana; ma si applicano con modi essenzialmente diversi”.
La nuova cristianità si delinea così – e oggi ne cogliamo sempre più la lontananza, come se osservata con un cannocchiale rovesciato – come un ideale concreto e profano da realizzarsi gradualmente nella storia in cui ogni contraddizione – o se vogliamo ogni dialettica – innescata dalla modernità, viene affrontata e risolta non più sul piano ideologico (“nulla è più vano d’unire gli uomini su un minimum filosofico”) ma innanzitutto su una “semplice unità d’amicizia”, che seppur insufficiente in sé, sta alla base del dispiegarsi progressivo di quel pluralismo e di quella libertà personale che costituiscono l’elemento essenziale di una città umana e vivibile.
Amicizia fraterna espansiva, nella certezza che “sentirsi responsabili dei propri fratelli non diminuisce la libertà, ma le dà un peso più grave”: l’approdo inevitabilmente scivola verso una forma di corporativismo esistenziale che presuppone un principio diffuso di santità temporale, difficile da rintracciare nella storia.
La politica diviene così inevitabilmente lo spazio necessario per l’orientamento al bene. Certo, bene minuscolo, ma sempre analogicamente riflesso del Bene supremo, dunque innanzitutto categoria morale.
Ed è proprio tale visione della politica o – per dirla con Maritain – dell’“animazione politica”, che ha suggestionato e affascinato la stagione più effervescente e attiva del cattolicesimo impegnato del nostro Paese, subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, fino alla deflagrazione di tale esperienza a cominciare dalla seconda metà degli anni Ottanta del Novecento. I politici maritainiani, sulla scorta di San Tommaso, si presentavano come cives praeclari, ovvero “elementi politici illuminati ai quali conviene il compito animatore e formatore”. Un compito che “suppone di fatto il dono della grazia e della carità” in quanto “virtù infuse”.
La politica e il politico: sembra collocarsi qui, in una lettura pratica di Umanesimo integrale, la questione che ha attraversato e attanagliato buona parte del cattolicesimo politico italiano. Da una parte la “nuova cristianità” che poi diverrà “perduta”, come progetto politico concreto e statico incapace di cogliere le sempre più repentine trasformazioni culturali e antropologiche della società occidentale, a partire dagli anni Settanta. Dall’altra l’assunzione autoreferenziale, come per autodefinizione, di un compito quasi sacerdotale di guida delle masse, fino ad evitare i conti con il consenso. I politici, più o meno autenticamente maritainiani, autoproclamatisi cives praeclari, hanno continuato per troppo tempo a ritenersi depositari, contro ogni evidenza, dei principi primi della nuova cristianità, contenti della loro presunta santità e purezza (anch’essa per autodefinizione). Così sono finiti dritti in uno dei pericoli che Maritain stesso additava: “cercare la santità solo nel deserto”.
E’ difficile dire cosa oggi resti di Umanesimo integrale: la nuova cristianità è perduta (come riconosceva Pietro Scoppola a metà degli anni Ottanta), i maritainiani della prima ora sono morti, gli epigoni scimmiottano senza mai aver letto Maritain, l’ipotesi di una “semplice unità d’amicizia” fa quasi tenerezza in una società dell’aggressione qual è la nostra e perfino dentro la comunità cristiana.
Certo, Umanesimo integrale è stato scritto tra il 1939 e il 1946. Ben altro mondo si presentava agli occhi di Maritain e di chi aveva visto in lui una possibilità concreta di redenzione della società. La sua storicizzazione lo salva da un anacronismo tragico, reso patetico da chi continua a sbandierarlo per ciò che non è e non è mai stato: il certificato di una buona politica cattolica.