Un articolo sul Fatto Quotidiano, ieri, ha ripreso alcuni spunti di cronaca del procedimento giudiziario in corso su Il Sole 24 Ore. Al di là del merito della vicenda, ha fatto riflettere che a tenere accesi fari “giustizialisti” sulla crisi del quotidiano confindustriale – iniziata con la quotazione in Borsa nel 2007 – sia stato il giornale di Marco Travaglio, il cui approdo al listino Aim di Piazza Affari è atteso giusto nelle prossime settimane. Tutto ciò non fa che aggiungere materiali di dibattito sul passaggio estremamente critico in corso per l’editoria giornalistica italiana.
Da un lato – è accaduto anche pochi giorni fa al congresso della Fnsi, il sindacato unico e unitario dei giornalisti italiani – la categoria continua a rivendicare con forza un ruolo “pubblico”, di “cane da guardia” della democrazia. Ed è su questa premessa che sono innestate le crescenti rivendicazioni polemiche contro il governo in carica, che negherebbe ai giornalisti (e ai loro editori) aiuti e provvidenze statali ritenuti invece dovuti su un presunto piano “civile”.
È un fatto – dall’altro lato – che la larga parte dell’editoria giornalistica nazionale sia oggi gestita da gruppi privati, quotati in Borsa, controllati dall’aristocrazia del capitalismo italiano: Gedi (De Benedetti e Agnelli), Rcs-La7 (Cairo con l’appoggio determinante di Intesa Sanpaolo), Mediaset-Mondadori (Berlusconi), Caltagirone, Monrif, Gruppo 24 Ore (Confindustria) oltre a Class Editori. Nessuno è in condizioni di salute floride, alcuni appaiono acciaccati o convalescenti, altri sono in seria difficoltà. Qualcuno è reduce da operazioni straordinarie (le fusioni Repubblica-Stampa o Class-Gambero Rosso; l’Opa di Cairo su Rcs) ma pressoché nessuno è stato oggetto di ricapitalizzazioni recenti da parte dei loro azionisti (a parte un limitato aumento-tampone di Confindustria per il Sole). Nel mentre decidono a cadenza ormai quotidiana tagli ed esuberi di giornalisti, gli editori sono compatti a fianco dei giornalisti superstiti nel chiedere contributi allo Stato e non capitali al mercato (per rilanciare i loro gruppi o per favorire l’ingresso di investitori più forti, impegnati, dotati di competenze).
A tutti fra poco si affiancherà al listino Seif, l’editoriale del Fatto: che collocherà sul mercato di un pacchetto del 25% circa di azioni proprie, a suo tempo riacquistate da soci fondatori in uscita. L’Ipo è stata stimata dalla Ad Cinzia Monteverdi in 10-12 milioni di euro e sarà accompagnata dall’emissione di warrant gratuiti, premessa di un’ulteriore raccolta di mezzi. L’operazione è stata preceduta, nel 2018, dalla distribuzione ai soci di un dividendo straordinario di 2 milioni di euro complessivi: contestata dalle rappresentanze sindacali interne del Fatto, ma comunque in linea con le pratiche consolidate per le start-up di successo prossime alla “consegna” al mercato.
Valutata con gli standard degli analisti finanziari, l’Ipo del Fatto risponde all’esigenza di alleggerire l’attivo di bilancio facendovi entrare liquidità utile alla gestione e allo sviluppo; ma senza mettere in discussione la solida maggioranza di controllo esistente. I grandi soci hanno d’altronde colto l’occasione per auto-liquidarsi – in parte – il successo imprenditoriale costruito in un decennio. Anche il quotidiano che più di altri ha condotto una critica serrata e antagonista ai mercati finanziari e a un sistema-media dipinto come strumento di potentati economici, ha dunque incanalato la sua storia d’impresa entro il percorso classico del capitalismo di mercato.
Lo stesso percorso, d’altronde, era stato imboccato con molta più decisione dal quotidiano-leader dell’impresa italiana e dei mercati finanziari. Con la quotazione, l’editoriale del Sole 24 Ore aveva visto affluire dal mercato 300 milioni di mezzi freschi, benché Confindustria sia rimasta sempre saldamente azionista di controllo. Proprio allora, tuttavia, l’editoriale ha cominciato a inanellare bilanci in perdita: bruciando quasi per intero il suo valore di Borsa e venendo alla fine coinvolta in un’inchiesta giudiziaria per reati societari e finanziari.
Paradosso ha voluto che proprio sabato sera il Gruppo Sole abbia dovuto smentire nuove indiscrezioni riguardanti un possibile aumento di capitale-bis, ribadendo che la situazione finanziaria del polo non desta preoccupazioni. I rumor di Borsa sul Sole, per la verità, hanno citato negli ultimi giorni anche l’ipotesi di delisting della società: di Opa di Confindustria sul capitale flottante, con il ritiro del titolo dalla quotazione. L’ipotesi non è stata commentata né dal Gruppo, né da Confindustria.
Chissà comunque se il Sole sarà ancora quotato quando si apriranno gli Stati Generali dell’Editoria promessi dal sottosegretario alla Presidenza Vito Crimi e invocati sia da giornalisti che dagli editori. E chissà come si sarà nel frattempo ambientato in Piazza Affari il late comer di Travaglio & soci.