È Nicola Zingaretti, romano, 54 anni, il nuovo leader del Pd. Il suo popolo lo ha incoronato con un plebiscito, senza se e senza ma. Oltre 1,7 milioni di persone si sono presentate di buon’ora ai gazebo e ben oltre il 65% di essi ha indicato lui come nuovo capo. Un dato univoco su tutto il territorio nazionale. Si passa dall’80% di Genova alla vittoria di misura a Salerno, regno incontrastato di De Luca padre e figlio, schierati con Martina.
Il messaggio è chiaro. Il popolo del Pd vuole un leader con pieni poteri. E vuole cambiare strada. Deve tener conto di questo messaggio chi ha cercato di dipingere Zingaretti come un uomo del passato, un liquidatore del partito, l’uomo a cui chiedere al massimo di spegnere la luce. Ma dovranno accettarlo anche coloro che, sostenendolo in modo opportunistico, speravano in un risultato striminzito per poterlo condizionare in futuro.
Che il voto alle primarie stesse per diventare qualcosa di importante, e che gli elettori del Pd avrebbero colto la prima occasione utile per reagire, lo si è capito già sabato pomeriggio guardando la straordinaria manifestazione “People, prima le persone” che con oltre 200mila partecipanti ha riempito Milano. Per la prima volta dopo anni i leader del Pd presenti al corteo sono stati accolti senza fischi o slogan di protesta, ma da applausi e abbracci, come si fa con vecchi amici che è bello rivedere dopo molto tempo.
Perdonati. La prima cosa che viene in mente di fronte ad un risultato così netto è che il popolo della sinistra ha voluto rimettere in piedi il Pd, perché lo vuole in grado di agire. E lo ha fatto mettendo da parte ogni rancore. Ormai la maggioranza giallo-verde ha già dimostrato il peggio di sé e incomincia a fare davvero paura, più che per le decisioni che prende, per le conseguenze a cui sta condannando il paese.
Gli elettori di sinistra ci hanno pensato su e hanno deciso di perdonare gli errori di questi anni, il renzismo con il suo pessimo giglio magico, i vecchi capi incolleriti che se ne sono andati sbattendo la porta, gli anni tristi e difficili dei governi “per necessità” con Berlusconi e Alfano.
Qui bisogna dire che non c’è parte politica come la sinistra a cui fanno bene le sconfitte. Hanno un effetto rigenerante.
Cambiate tutto. Gli elettori che hanno riempito i gazebo hanno però chiesto un cambiamento profondo. Radicale. Si sono fidati di Zingaretti, perché la sua storia è davvero diversa dagli altri concorrenti, che, alla fine, hanno ottenuto risultati deludenti. Martina ha commesso numerosi errori durante il suo mandato di segretario reggente, primo fra tutti quello di rinviare di oltre un anno il congresso: davvero una decisione grave e immotivata. Era Renzi che non voleva che si svolgesse il congresso, esattamente perché non voleva cedere il partito a un nuovo leader, come poi è accaduto stanotte. E Martina si è prestato. Facendo di se stesso un personaggio debole e privo dell’autonomia necessaria per essere un capo. Giachetti ha realizzato invece il suo obiettivo, raccogliere le insegne di quella che fu la maggioranza del partito e ridurla ad una piccola minoranza, invisa e radicaleggiante, a cui prima o poi qualcuno dovrà spiegare che in politica decidono i voti. Potranno continuare a raccontarsela come vogliono, ma sono ormai ridotti ad una piccola enclave destinata alla testimonianza. Non si faranno un partito perché non ne avranno la forza, e continueranno a stare nel Pd.
Europei, ma di sinistra. Il voto segna un netto spostamento a sinistra del Pd. Esattamente come è accaduto in questi ultimi anni in Gran Bretagna, in Spagna, in Germania, negli stessi Stati Uniti, dove le forze progressiste sono uscite malridotte dalla crisi. Riprendere una battaglia in Europa ora ha un significato preciso, contribuire ad una ricostruzione della sinistra democratica, con nuovi programmi e nuove idee, con nuove scelte politiche, con nuovi modelli comportamentali. Non sarà un percorso facile, ma sarà aiutato anche da tutte quelle forze centriste che possono sperare in un futuro dell’Europa unitaria solo se sopravvive una sinistra rinnovata.
Rappresentativi. Infatti c’è una questione che fino ad oggi è sfuggita a molti. Se la sinistra esprime un suo legittimo rappresentante, essa può affrontare serenamente il tema dell’alleanza con le forze moderate del paese e in Europa.
Non è una questione di poco conto. I moderati sono i primi ad auspicare una sinistra forte e ben radicata nel proprio campo. Diciamo le cose come stanno, la sinistra deve fare la sinistra. È questo che le dà la possibilità di costruire alleanze, parlare a mondi diversi, misurarsi con le forze economiche e produttive. Si dirà che è un discorso vecchio. Non è così. Sarebbe vecchio se si pensasse di renderlo concreto con vecchi programmi e praticando vecchie soluzioni. Ma proprio questo è il punto. Alla sinistra si chiede allo stesso tempo di essere nuova e innovativa, e contemporaneamente deve saper fare il suo mestiere: dare voce e rappresentanza a chi nella società sta dalla parte dei meno fortunati, dei più deboli.