Il mercoledì delle ceneri s’inizia sempre così: “Quest’anno lo prometto: rivolterò come un calzino la mia vita”. Finisce sempre, più o meno, allo stessa maniera: “Anche quest’anno non son riuscito a portare a compimento tutti i miei propositi”. Che fare, dunque: rassegnarsi? Ne sarebbe assai felice il Lucifero furibondo, quello che altro non fa che ripetere la solita smunta litania: “Lasci perdere quest’idea” (L. Tolstoj). E’ più comodo negare l’esistenza del peccato che convertirsi e cambiare vita: il trucco di Satana è d’altissima finitura.
Oppure, per chi non ama darsi per vinto, l’essere onesti e ammettere che, anche nella sconfitta dell’anno scorso, non si è stati affatto sconfitti: “Ho perduto la sfida, è vero. Rimane comunque la bellezza di averci provato”. La libertà di riprovarci anche quest’anno, perché nessuno è più difficile da convertirsi di un benpensante.
Per gli uni e per gli altri, stamattina suona la campana della Quaresima, s’alza un miscuglio di cenere e di lamenti: “Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza” (2Cor 6,2). “Favorevole” è aggettivo di qualificazione propizia: dice benevolenza, benignità, propensione, inclinazione. Anche amicizia, sostegno. E’ aggettivo di occasione: ogni incontro nasce da una grande occasione. Perderla è perdersi. Come scrive Baudelaire: “Rimandando quel che si ha da fare, si corre il pericolo di non poterlo mai fare”. Morale della favola? “Non convertendosi subito, si rischia di essere dannati”. Bannati dalla lista della santità possibile.
Deciderò io, dunque, cosa farò della mia quaresima quest’anno. Siccome il cristiano è un uomo che deve convertirsi ogni giorno, ci riprovo anche stavolta. Non “anche se” l’annata scorsa è andata male (è comunque andata meglio di molte annate pregresse), ma è proprio perché “è andata così” che ci riprovo. Ricordo i piccoli passi riusciti, l’emozione nel sentirsi millimetricamente diverso, quella sensazione di stare a due passi da Dio. Poi, verso la fine, sono crollato, ma quei piccoli dettagli sono ancora oggi la mia salvezza. La mia nostalgia, anche il sospetto di avere, comunque, indovinato se non la casa di Dio almeno la strada che porta a Lui. Il sapore d’essere nei paraggi di Dio, a poche laterali dal suo indirizzo civico: “L’irruzione di Dio, straripante e totale – scriveva André Fossard nel 1969 – s’accompagna con una gioia che non è altro che l’esultanza del salvato, la gioia del naufrago raccolto in tempo”.
Lucifero, che dopo Cristo è il più fedele di tutti i miei compagni di viaggio, vorrebbe che io mollassi la presa, naufragassi sotto il pergolato, intonando con la volpe la più bella tra le canzoni che il male ama canticchiare: “Tanto l’uva è acerba!”. Manco per sogno: preferisco fallire facendo cose impopolari, all’apparenza anche impossibili, piuttosto che riuscire nel fare cose che sono alla portata di tutti. L’anno scorso non sono riuscito a prendere il grappolo d’uva? “Lasci perdere quest’idea, don Marco!” mi suggerisce l’avventore scatenato. Figurarsi se gli do retta: sto sotto il pergolato ad allenarmi. “Questo è quel pergolato e questa è quell’uva che la volpe della favola giudicò poco matura, perché stava troppo in alto – scrive in una sua poesia Gianni Rodari –. Fate un salto, fatene un altro. Se non ci arrivate riprovate domattina; vedrete che ogni giorno un poco si avvicina il dolce frutto: l’allenamento è tutto”. L’allenamento, ovverosia la conversione al maschile.
Sotto il pergolato me ne starò: per cinquanta giorni proverò a fare un salto, farne un altro. Poi un altro ancora. Tenterò d’essere gentile con me tutte le volte che non toccherò quell’uva che mi sta lì, giusto a due palmi dal naso. Perché la gentilezza ha convertito più peccatori dello zelo. Anche dell’eloquenza e della sapienza. Tra un salto e l’altro continuerò a guardare quel grappolo là in alto. E, tra un salto e l’altro, invece che confessare sempre e solo il male fatto inizierò a chiedere scusa del bene non fatto. Proverò così stavolta: l’allenamento è tutto.