Oggi che è la festa delle donne ricordiamo che Eurostat recentemente ha segnalato che in Italia, oltre al carico di lavoro a casa, in media superiore a quello degli uomini, le difficoltà lavorative delle donne, nella fascia d’età compresa tra i 25 e i 49 anni, aumentano in corrispondenza dell’aumento del numero di figli e a questo incremento corrisponde una diminuzione del tasso di occupazione: dal 62,2% per le donne italiane senza figli si scende al 58,4% per le donne con un figlio (percentuale ben lontana dalla media europea, pari al 72,5%), fino ad arrivare al 41,4% nel caso di donne con tre e più figli, dimostrando così come la situazione del lavoro femminile in Italia sia ancora fortemente connessa a quella familiare.
La legge di bilancio 2019 (L. 145/2018) non ha introdotto ulteriori misure volte alla conciliazione vita-lavoro rispetto a quelle preesistenti. Anzi, l’articolo 1, c. 485 riconosce alle lavoratrici la facoltà di astenersi dal lavoro esclusivamente dopo il parto, entro i cinque mesi successivi allo stesso, a condizione che il medico competente attesti che tale opzione non porti pregiudizio alla salute della donna e del bambino e questo francamente pone dei problemi e ritengo che questa modifica sia sbagliata.
Se è vero che la gravidanza non è una malattia e che moltissime donne hanno lavorato fino all’ultimo mese perché godevano di buona salute e avevano una professione che glielo consentiva, questa modifica è tutta a carico della lavoratrice che rischia così di trovarsi di fronte a un ricatto. La scelta di quanto e come lavorare non è completamente in capo al lavoratore e da qui deriva il forte rischio di trasformare la possibilità prevista in un obbligo. Tre mesi di maternità dopo il parto spesso risultano insufficienti, considerando lo stato dei servizi all’infanzia in gran parte del nostro Paese. L’idea di far scegliere alle donne quando assentarsi prima del parto è sicuramente il modo peggiore di affrontare una questione assai complessa come quella della maternità per le donne lavoratrici.
Prima andrebbero adeguati i servizi e cambiata la normativa sul lavoro e, soprattutto, andrebbe cambiata quella mentalità che considera le madri lavoratrici delle professioniste a metà. Al contrario una mamma che lavora è una donna che moltiplica tutto, ma non bisogna cadere piuttosto nella trappola della “superdonna”. Semplicemente le donne, se vogliono, fanno figli. Un Governo non aiuta le donne con un mese in meno di maternità, ma con servizi in più.
Con questo provvedimento del Governo si svalutano importanti diritti conquistati in passato dalle donne. Lo spirito è quello di un orientamento individualista e non di una tutela sociale della maternità, con la conseguente svalutazione dei significati simbolici legati all’evento. Da tempo nel nostro Paese si assiste a un calo demografico inarrestabile: si registra una media di 1,32 figli per donna, con 449mila nascite nel 2018, 120mila in meno rispetto a dieci anni fa.
Annualmente l’Ispettorato nazionale del lavoro pubblica il monitoraggio nazionale delle convalide delle dimissioni e delle risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri che dà conferma della stretta correlazione tra maternità e disoccupazione. Dall’ultimo report fine 2018, nel corso del 2017 il numero complessivo di dimissioni e risoluzioni consensuali convalidate a livello nazionale è stato pari a 39.738 (dato in crescita del 5% rispetto a quello rilevato nel 2016, pari a 37.738), di cui 37.248 dimissioni volontarie che hanno riguardato soprattutto le lavoratrici madri, a cui sono riconducibili 30.672 provvedimenti (il 77% del totale); di contro, 9.066 riguardano i lavoratori padri, un numero contenuto anche se in aumento in termini assoluti.
Un altro provvedimento discutibile e “non buono” della legge finanziaria è l’articolo 1, c. 486 che pone a carico dei datori di lavoro, pubblici e privati, che stipulano accordi per lo svolgimento dell’attività lavorativa in modalità agile (smart working), l’obbligo di dare priorità alle richieste delle lavoratrici nei tre anni successivi alla conclusione del congedo di maternità, ovvero ai lavoratori con figli disabili che necessitino di un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale. Questo – al di là del fatto che snatura lo smart working, che non è innanzitutto una soluzione di conciliazione famiglia-lavoro, ma uno strumento di innovazione dei processi organizzativi – rischia di innescare meccanismi che, invece di favorire le donne, accentuino ancora di più l’onere della cura sulla sfera femminile. Non è chiaro infatti perché in caso di figli con disabilità si vogliano favorire (giustamente) entrambi i genitori, mentre per la cura destinata alla prima infanzia l’attenzione sia esclusivamente sulle madri.
Altro provvedimento sicuramente non dalla parte delle donne è “quota 100“. Inps ci consegna dati certi da cui si evince come una manovra ‘maschile’ e ‘settentrionale’, ovvero una manovra la cui platea di beneficiari è composta principalmente da uomini, e in secondo luogo da uomini e donne residenti nelle regioni del Nord Italia. Riforme previdenziali opportune per garantire sostenibilità al sistema dei conti pubblici non possono subito rimediare alle ‘imperfezioni’ di un mercato del lavoro in cui la componente femminile ha numerose difficoltà in termini di accesso, equità retributiva, segregazione orizzontale e verticale, difficoltà di work life balance e dunque scarsa contribuzione e basse pensioni. Ma quota 100 e Opzione donna oltre a non sanare, in fase di ritiro dal lavoro, i gap di genere connessi alle differenti storie lavorative di uomini e donne li ribadiscono, favorendo ancora una volta una ridotta platea di beneficiari maschi.