Prima l’affluenza, circa 1,7 milioni di persone, poi le percentuali di maggioranza, oltre il 60%, potrebbero indicare che c’è qualcosa di profondo in moto in Italia con l’elezione di Nicola Zingaretti a nuovo segretario del vecchio Pd, ormai ultimo partito rimasto erede della prima repubblica.
In Cina si pensa che per vedere in tempo i cambi di vento bisogna osservare la punta giovane, molle e flaccida degli abeti alti. Svetta sopra gli altri rami, ma è debole e quindi si piega a ogni nuovo refolo, anticipando la tempesta. Se si aspetta che il vento scuota il tronco, ormai è troppo tardi, la burrasca è arrivata e non si può più fare niente.
Naturalmente bisogna stare attenti, perché un refolo che muove la punta dell’abete può indicare un qualsiasi soffio passeggero. Così non sappiamo se questo voto per Zingaretti è l’annuncio di un cambiamento di vento o solo un refolo passeggero. In realtà molto del futuro dipenderà anche da cosa Zingaretti farà nel prossimo futuro.
Le sue sfide sono enormi perché sono doppie. Zingaretti da una parte deve prendere il controllo e il consenso all’interno del partito, che è un elefante burocratico costruito su strati antichi di piccoli e grandi poteri locali.
Qui l’intreccio di idee e propaganda, anche di vetero-sinistra, e interessi a mantenere gli orticelli sono un peso sulle spalle del partito. Questo il segretario precedente Matteo Renzi lo aveva ben visto e voleva svoltare per aprirsi alla società.
Resta il fatto che questi nuclei di interessi consolidati hanno impedito al partito di sciogliersi dopo il crollo elettorale e politico delle ultime elezioni.
Lo stesso zoccolo di interessi non esiste per altri partiti, che sono più leggeri per affrontare il nuovo (infatti la Lega cresce portata dal nuovo vento), ma poi si sciolgono come neve al sole quando il vento cambia direzione (come sta accadendo per il M5s).
L’altra parte della sfida di Zingaretti, la più importante, è esterna: come fare ad acchiappare un consenso esterno che si sta spostando in direzioni nuove. Qui bisognerebbe pensare fuori dalla struttura del partito attuale, in qualche modo riprendendo l’intuizione di Renzi, sfrondandola del suo attivismo nevrotico e dandole invece una dimensione strategica. Tale dimensione strategica oggi non ce l’ha nessun partito italiano.
Un dato di fondo interessante che potrebbe essere un segnale trasversale per tutti è la caratterizzazione di Zingaretti. L’uomo si presenta come buono, forse buonista, e ha avuto successo. Cioè questo potrebbe essere un segnale che l’Italia ha cominciato ad essere stufa del cattivismo militante proclamato da altri.
Il buono/buonismo di Zingaretti pare più attivo della normalità dell’ex premier Paolo Gentiloni, che sembrava scivolare nell’apatia. Esso appare attivo, propositivo, e in questa sua pulsione di movimento contrasta con l’attivismo cattivista di altri. Cioè si può essere buoni e attivi, non bisogna essere cattivi, dire no, per essere attivi.
Naturalmente questi sono solo odori, fumi, refoli di vento. Ma le lezioni di Zingaretti forse possono essere utili anche per la Lega di Matteo Salvini: forse ci vogliono soluzioni concrete per problemi concreti, non bastano più proclami e provocazioni. Gli umori elettorali, è chiaro, sono più mobili delle foglie al vento. Forse chi arriva per primo a proposte di soluzioni autentiche sbanca alle prossime elezioni.