Veleno o ricostituente? La Brexit cattiva che sembra profilarsi dopo la seconda bocciatura opposta dalla Camera dei Comuni britannica all’accordo negoziato dal governo May con Bruxelles potrebbe non essere la catastrofe evocata dagli eurofanatici. È chiaro che il busillis è tutto nella dimensione dell’inevitabile crollo della sterlina nei cambi con le altre valute forti del mondo. Fin dove arriverà? E viceversa, ammesso e non concesso che da oggi al 29 marzo si trovi un altro accordo, che giudizio ne daranno i mercati?
Qualche settimana fa, il colosso americano delle banche d’investimento Citigroup aveva consigliato ai suoi clienti “private” – gente che ha patrimoni di almeno 25 milioni di dollari – di non fare assolutamente niente sulla sterlina, perché ogni previsione rischiava di rivelarsi sbagliata e l’unica certezza era la volatilità. Con la Brexit a carte quarantotto la maggior parte degli analisti e investitori avverte che prevedere cosa potrebbe accadere in futuro per la valuta, le aziende e i cittadini stessi britannici è semplicemente troppo difficile. L’unica certezza è la volatilità…
Ci si può affidare alla storia per rendersi conto che quando la sterlina cade le azioni delle società quotate in Borsa nel Regno Unito in genere aumentano di valore: semplicemente perché diventano più economiche agli occhi (e alle tasche) degli investitori internazionali. Questi investitori opportunisti potrebbero anche essere incoraggiati nelle loro possibili mire dai dati di martedì scorso, che hanno mostrato l’economia britannica in leggera ripresa a gennaio, registrando le sue migliori cifre mensili di crescita in due anni.
Intanto, e per pochi giorni, la palla torna ai negoziatori. L’obiettivo – troppo sensato per essere già abbandonato senza almeno un terzo tentativo di accordo – è quello che l’unica frontiera terrestre del Regno Unito con l’Unione europea, quella con l’Irlanda, venga regolata in modo gestibile. Oggi vi transitano quotidianamente 30 mila persone, ma con una Brexit dura diventerebbe un confine incandescente, pericoloso, probabilmente esposto a disordini e caos.
L’impasse politico è totale, in Gran Bretagna. Theresa May è al minimo storico di forza e credibilità, ma in questo momento nessuno ne insidia il sia pur fragilissimo ruolo. La premier, provatissima dall’ennesimo smacco, ha annunciato le prospettive possibili: entro il 29 marzo si rivoterà sulla possibilità che la Gran Bretagna lasci l’Unione senza alcun accordo, il “no deal”. Sarebbe il caos: anche per l’Unione europea. Nessuno la vuole, ma nessuno ha idee migliori. Un rinvio, tanto per non decidere? Imbarazzante per i partiti britannici prendersi la responsabilità di procrastinare l’effetto del referendum di tre anni fa: siamo mica in Italia, dove è la regola che l’esito dei referendum venga disatteso.
Peraltro, se Londra chiedesse un rinvio, gli altri 27 Paesi dell’Unione dovrebbero a loro volta acconsentire, e Juncker ha fatto la voce grossa – si fa per dire – affermando che non servirebbe dar tempo a ulteriori negoziati. Anche perché cosa accadrebbe in caso di nuovo rinvio agli elettori britannici il 26 maggio prossimo, voterebbero per il nuovo Parlamento europeo oppure no? Un bel rebus legale. E di fronte al rinvio, il governo May reggerebbe o finirebbe con l’essere spazzato via da eventuali elezioni anticipate?
Dunque la Gran Bretagna è divisa, ma non sulle polemiche anti-europee perché la linea dura di una Commissione “in articulo mortis” ha destato antipatie anche negli euro-aperturisti inglesi. Sia nel Paese, sia alla Camera dei Comuni, che non a caso ha bocciato l’accordo con una percentuale di consensi ben più ampia di quella spettante alle opposizioni: le frange più euroscettiche dei Tories hanno votato senza esitazione contro. Eppure si fa fatica a immaginare un esito così stupidamente nocivo per tutti. Se davvero al 29 marzo prossimo l’Unione europea e la Gran Bretagna non avranno trovato accordi, quest’ultima diventerà un Paese extra-Ue come un altro. Come il Marocco, o il Cile. Si relazionerà con l’Unione attraverso alle regole del Wto. In concreto se oggi un Tir impiega tre minuti per superare la dogana di Dover, o per varcarla in un porto britannico, domani dovrà fermarvisi per ore e ore. Sarebbe il collasso. E in Irlanda, il riaffermarsi di un confine politico e nazionale “forte” tra le due zone del Paese riporterebbe a vent’anni fa, agli scenari della guerra civile.
Incognita legale assoluta, infine, sui 3 milioni di cittadini europei- di cui oltre 600 mila italiani – che vivono in Gran Bretagna. Diventerebbero ospiti a rischio di espulsione, a meno di improbabili accordi specifici, da costruire però ex post. E sulla base delle macerie del no-deal. La cosa stupefacente è però anche un’altra. Mentre su questo delirio politico istituzionale la Gran Bretagna si è lacerata e la May si è chiaramente giocata il suo futuro politico, le istituzioni europee sembrano gingillarsi con i problemi, come se non avessero contribuito a crearli. La spiegazione è ovvia: la Commissione non è elettiva, non risponde al popolo, né, una volta nominata, ai governi nazionali. L’antidemocrazia.
Se Londra piange, Bruxelles non ride.