Oggi esordisce in grande stile l’ultima pagliacciata politically correct che il sistema si è inventato per rendere non solo accettabile ma anche socialmente apprezzato il proseguire di default nella politica di spesa pubblica indiscriminata e deficit come unica religione laica: la lotta ai cambiamenti climatici. Vi ho già parlato di questa nuova campagna globale, quando ho messo tutti in guardia dalla profilo da rock-star che la stampa globale sta riservando ad Alexandria Ocasio-Cortez, la giovane deputata democratica, figli di portoricani e cresciuta nel Bronx facendo la cameriera per pagarsi gli studi (sembra un film di Netflix, d’altronde le lobbies i candidati li cercano per bene, fanno i provini e si affidano a esperti di comunicazione e marketing), che ha lanciato il suo Green New Deal, ovvero un colossale piano di indebitamento a fondo perso spacciato per riconversione del sistema in nome della sostenibilità ecologica che, nei fatti, rappresenta la versione non direttamente monetaria del piano di espansione della Fed. Insomma, il Qe con altri mezzi. E, soprattutto, con l’alibi di salvare orsi polari, balene e bambini vittime dell’enfisema da smog.
Come avrete notato, negli ultimi giorni siamo in piena esplosione del fenomeno. E oggi è il giorno del primo sciopero globale per la lotta contro i cambiamenti climatici, il D-day della nuova arma di distrazione di massa. Non più tardi di mercoledì è stata l’Onu a lanciare l’allarme: l’inquinamento provoca un quarto dei morti nel mondo. Peccato che altri due quarti siano frutto di guerre che l’Onu finge di non vedere, tipo quella in Yemen. Poco importa, il commercio di armamento val bene un po’ di ipocrisia. Tipo, casualmente, mettere i sauditi – i quali donne, bambini vecchi yemeniti li massacrano quotidianamente – a capo del Comitato Onu per i diritti umani.
Il giorno precedente, ricordando la tragedia del Vajont, è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a metterci in guardia: siamo alle soglie di una catastrofe climatica. Ma il Presidente – con tutto il rispetto dovuto – lo fa per obbligo formale di moral suasion, visto che è politico di esperienza e grande equilibrio, finissimo studioso di diritto, ma, appunto, uomo dalle competenze accademiche giuridiche. Non un fisico, né un climatologo. E poi, ecco saltare fuori l’anello di congiunzione di due paure: avanti di questo passo, i cambiamenti del pianeta potrebbero portarci entro il 2050 ad avere 50 milioni di migranti climatici. Quindi, se si vuole fermare l’immigrazione clandestina, oltre ad “aiutarli a casa loro”, occorre intervenire su desertificazione e alluvioni, carestie ed epidemie.
A fare da collante a tutti questi allarmi in ordine sparso, Greta Thunberg, la 16enne svedese che con i suoi scioperi del venerdì in nome della lotta ai cambiamenti climatici sta diventando la vera e proprio guru globale della battaglia del secolo. Ieri, poi, la certificazione della pagliacciata, ma anche del carattere di colossale mistificazione della campagna in atto: la sua proposta di candidatura al Nobel per la Pace. Il quadro è completo. E via, quindi, in grande stile al #fridaysforfuture anche in Italia, ovvero il giorno della settimana dedicato all’impegno ecologista. Non bastavano gli scioperi strategici dei mezzi pubblici, di fatto weekend lunghi assicurati a fronte di tavoli di trattativa aperti da secoli per rivendicazioni fotocopia, adesso c’è una nuova scusa per allungare il fine settimana e, finita la manifestazione in piazza, caricare l’automobile (la quale, ontologicamente, non inquina) e andarsene al mare o in montagna o a fare shopping al centro commerciale.
Ora, io sono notoriamente cinico e disincantato, ma non ho mire di proselitismo: non mi importa che la gente la pensi come me, voglio solo che sia informata, che senta tutte le campane. E conosca i fatti. Per questo, mi chiedo e soprattutto vi chiedo: se, giustamente, lottiamo per le vaccinazioni e ci affidiamo a medici e specialisti e non a stregoni e accademici da ricerca su Google per evitare il ritorno di malattie che pensavamo debellate, se chiediamo a ingeneri e architetti di fare in modo che non accadano più tragedie come quella del Ponte Morandi, in base a quale coerenza e criterio scientifico dovremmo intraprendere una battaglia, la cui capofila è una studentessa 16enne svedese con le sue teorie catastrofiste e le sue accuse da ribellismo adolescenziale verso il “sistema”?
Sarà certamente un genio, bravissima, con un QI degno di un docente universitario di Harvard di 55 anni, avrà divorato migliaia di testi scientifici e seguito centinaia di conferenze: ma resta una studentessa di 16 anni, cari lettori. Affidarsi alla sua guida, fosse anche solo simbolica e di testimonianza, in quella che viene dipinta come la battaglia del millennio, equivale a farsi operare di peritonite da qualcuno con la licenza media, ma che non ha perso nemmeno una puntata di ER o Grey’s Anatomy, ne siete consci vero? Davvero siamo sicuri che la sua crociata, al netto delle buone intenzioni e del genuino e appassionato impegno per il prossimo, su cui non nutro dubbi almeno fino a prova contraria, si basi su fondamenti reali e non sull’ennesima suggestione collettiva, la stessa che seguì per qualche mese la campagna di Al Gore? Salvo finire in fretta nel dimenticatoio e fuori dalle agende politiche di intervento di organismi proprio come l’Onu, quando la Cina minacciò tutti di far deragliare il commercio globale (e i mercati), se si continuava a romperle l’anima con la questione delle emissioni inquinanti.
Vi faccio qualche esempio, tanto per rifletterci su nella giornata dell’impegno ecologista e nel suo day after. La prossima panzana che vi refileranno sul tema, a occhio e croce, sarà quasi certamente legata alla decisione presa venerdì scorso dal Fondo sovrano norvegese, un gigante da 1 triliardo di dollari di assets con forte concentrazione sul comparto energetico fossile, di scaricare i titoli azionari che ha in portafoglio legati ad aziende petrolifere. Ovviamente, vi verrà spacciata come una decisione frutto di nuova coscienza ecologica di fronte alla catastrofe ambientale che abbiamo di fronte. Una vittoria di Greta e dei suoi venerdì di protesta silenziosa e solitaria. Balle. È soltanto puro hedging finanziario nei confronti di un comparto che vede i propri prezzi al palo dal 2014 e che all’orizzonte non garantisce prospettive di rinnovato profitto. Anzi, lo scorso anno, bilancio alla mano, è costato al Fondo norvegese un bel -6,1% di return-on-equity, pari a una perdita di 485 miliardi di corone.
E che l’operazione non abbia nulla di “verde” non lo dice il sottoscritto, bensì lo stesso Fondo sovrano nel suo comunicato stampa. Il quale venderà sì titoli azionari legati al comparto, ma soltanto quelli di aziende puramente esplorative, mentre terrà quelle delle big con operatività integrata su più comparti della filiera. Insomma, 134 compagnie vedranno le loro azioni scaricate, ma giganti come Royal Dutch Shell ed Exxon Mobil, ad esempio, potranno dormire sonni tranquilli. Ecco le parole del ministro delle Finanze norvegese, Siv Jensen: «L’obiettivo è ridurre la vulnerabilità del nostro benessere finanziario comune da quello che è ormai un permanente calo del prezzo del petrolio. A tal fine, è più accurato vendere aziende che esplorano e producono gas e petrolio che vendere un settore energetico ampiamente diversificato». D’altronde, parliamo di un Fondo cui fa capo un controvalore di titoli azionari petroliferi da 37 miliardi di dollari, da BP a Shell fino a Total.
E sapete quale sarà l’obiettivo principale del tanto declamato disinvestimento “ecologista”? Piccole aziende indipendenti, i cui titoli hanno un controvalore di 8 miliardi di dollari circa nel totale del portafoglio norvegese. Insomma, il Fondo vende, ma lo fa con accuratezza finanziaria, non iconoclastia ambientalista. Meramente per un calcolo finanziario. E, attenzione, in base alle regole statutarie di investimento, anche l’eliminazione di quei titoli richiederà anni. La ragione? Semplice, il Fondo è controllato al 67% da Equinor, il gigante petrolifero e del gas norvegese, un tempo noto come Statoil, il quale non ha la minima intenzione di ridimensionare il suo business e concentrarsi sull’eolico o la raccolta di margherite, quindi venderà i titoli a piccoli blocchi e diluendo nel tempo le operazioni proprio per non creare caos nel comparto, scaricando posizioni eccessive in un momento di grande delicatezza, fra Opec allo sbando, prezzo bassi e nuove dinamiche geopolitiche tutte da ridisegnare. Di ambientalista, nonostante le Ong e i Partiti verdi di mezza Europa gridino alla vittoria e alla svolta epocale, non c’è proprio niente nella decisione di Oslo. Nemmeno a medio-lungo termine.
Anzi, qualcosa c’è. Ed è terribilmente strategico. Non solo i grandi operatori petroliferi nei giacimenti di shale statunitense hanno appena annunciato la loro intenzione di aumentare la produzione al massimo, ma hanno, di fatto, aperto la porta ai prodromi della nascita di un cartello petrolifero indipendente a stelle e strisce, una sorta di Opec americana tutta incentrata sullo scisto. Ecco come Micheal Wirth, presidente e amministratore delegato di Chevron, ha prospettato la situazione: «I produttori ed esploratori indipendenti stanno per essere spremuti dalle banche, le quali vogliono che producano maggiori profitti o escano del tutto dal grande gioco di scala del Permian». Insomma, cannibalismo delle majors sui piccoli. Casualmente, gli stessi piccoli che il Fondo norvegese ha messo in cima alla lista di vendita del suo portafoglio azionario. Ecologismo?
(1- continua)