La Camera dei Comuni di Londra ha dato mandato a Theresa May di chiedere a Bruxelles un rinvio dell’uscita della Gran Bretagna dall’Ue dal 29 marzo al 30 giugno. Questo l’esito dell’ultimo voto sulla Brexit della settimana, ma già a inizio della prossima se ne terrà un altro relativo all’accordo raggiunto dalla Premier con l’Ue, già bocciato due volte. L’obiettivo, infatti, è quello di presentarsi al Consiglio europeo del 21-22 marzo con l’approvazione dell’intesa in modo che la proroga sia funzionale a concedere il tempo necessario allo svolgimento di tutti i passaggi tecnici e legislativi del caso. Diversamente, occorrerebbe ottenere un rinvio più lungo della Brexit, visto che la Camera dei Comuni non vuole un “no deal” e ha anche bocciato la mozione relativa a un nuovo referendum. Difficile capire cosa potrà accadere, anche perché molto dipenderà dalla posizione che terrà l’Unione europea, stante il fatto che, come ci spiega Lorenzo Pace, Professore di diritto dell’Unione europea all’Università del Molise, ognuno dei paesi membri potrebbe porre una sorta di veto contro la proroga chiesta da Londra.
Professore, come valuta l’attuale situazione tra Unione europea e Gran Bretagna riguardo alla Brexit. A questo punto cosa succede?
Per individuare quale siano le opzioni dal punto di vista giuridico è necessario prima individuare quale siano gli obiettivi delle due parti, cioè l’Unione europea e i relativi Stati membri, da una parte, e la Gran Bretagna, dall’altra. Entrambe le parti hanno espresso la preferenza per un divorzio “ordinato”, cioè tramite la predisposizione di un Trattato di recesso. L’Unione ha sempre indicato che questa era la sua preferenza. La Camera dei comuni si è espressa favorevolmente su questo punto solo mercoledì scorso, a quasi tre anni dalla vittoria del referendum per la Brexit e a quasi due anni dalla notifica all’Unione della volontà di recedere dalla Ue. Ma questo è avvenuto soprattutto dopo che la Camera dei comuni ha bocciato per ben due volte, negli ultimi giorni, il Trattato negoziato nei due anni precedenti dal Governo May per l’uscita “ordinata” dall’Unione.
Come siamo arrivati a questo punto?
L’attuale situazione è conseguenza di accadimenti politici strettamente interni alla Gran Bretagna. In particolare è conseguenza di come il Governo inglese ha gestito il “dopo referendum”. Nella negoziazione del Trattato di recesso il Parlamento inglese per lunghissimo tempo non è stato consultato. Addirittura, come ricorderà, è dovuta intervenire nel 2017 la Supreme court inglese per chiarire che il recesso dall’Unione secondo il famoso articolo 50 doveva essere deciso non dal Governo, ma da una legge della Camera dei comuni. Quando la Camera dei comuni ha avuto finalmente la possibilità di esprimere formalmente la propria posizione sulla Brexit, e questo è avvenuto solo recentemente, il Parlamento con maggioranza bipartisan ha sonoramente bocciato le scelte compiute dal Governo negli ultimi due anni. Il problema, per quanto riguarda il diritto dell’Unione, è che queste posizioni formali della Camera dei comuni sono state decise a meno di due settimane dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.
Perché per il diritto dell’Unione ciò rappresenta un problema?
L’articolo 50 è stato formulato in modo che lo Stato che notifichi la volontà di recedere e l’Unione europea dispongano di due anni di tempo per negoziare un Trattato di “divorzio”. La dinamica politica interna alla Gran Bretagna, cioè, in ultima istanza, il fatto che il Trattato negoziato dal Governo sia stato “bocciato” dal Parlamento inglese a due settimane dalla scadenza dei due anni, ha fatto sì che il periodo previsto all’art. 50 per la negoziazione sia passato inutilmente. E ora si è creata una situazione di estrema tensione, tanto a livello della Gran Bretagna, tanto al livello dell’Unione, per cercare di trovare una soluzione alla Brexit secondo modalità non previste dai Trattati europei.
Quali sono ora le opzioni sul tavolo?
Visto i pochi giorni rimasti al 29 marzo, giorno in cui la Gran Bretagna uscirà dall’Unione europea con o senza Trattato di recesso e visto la comune volontà di favorire un’uscita “ordinata” della Gran Bretagna dall’Unione, lo scenario più ragionevole sarebbe il seguente. Cioè che la Camera dei comuni (come avvenuto ieri) dia un mandato al Capo di governo per concordare con l’Unione e gli Stati membri un’estensione breve del termine di uscita della Gran Bretagna, un’estensione inferiore ai due mesi e che comunque scada prima della celebrazione delle elezioni del Parlamento europeo in maggio. Questo “rinvio breve” sarebbe giustificato dal permettere al Parlamento inglese di individuare e approvare un progetto condiviso dei rapporti futuri tra Gran Bretagna e Unione europea. Se la Camera dei comuni riuscisse in questo obiettivo, si potrebbe ipotizzare una seconda richiesta all’Unione di estensione più ampi dei termini. Non bisogna dimenticare, però, che dal punto di vista giuridico ciascuno degli Stati membri dell’Unione dispone di un potere di veto nel riconoscimento dell’estensione.
Sembra però che il rinvio chiesto da Londra sia fino al 30 giugno, dopo le elezioni europee: ci potrebbero essere delle “controindicazioni”?
Ci si troverebbe in una situazione di estrema incertezza in quanto, come dicevo prima, i Trattati non prevedono un’ipotesi di questo genere. E, in primo luogo, si creerebbe un “cortocircuito” tra la celebrazione delle elezioni del Parlamento europeo, a cui parteciperebbe anche la Gran Bretagna, e l’uscita della stessa dall’Unione. Inoltre, le posizioni dei differenti Stati membri sul punto del rinvio sono molto differenti e alcuni si sono già espressi chiaramente contro un eventuale rinvio oltre i due mesi. E gli Stati membri, come dicevo prima, hanno un potere di veto sulla concessione del rinvio.
Sarebbe possibile un’estensione più lunga, fino a due anni?
Tutto è nelle mani dell’Unione e degli Stati membri. Nelle discussioni a Bruxelles di queste ore un’estensione lunga è considerata possibile solo nell’ipotesi di rilevanti nuove decisioni in Gran Bretagna, ad esempio la celebrazione di un secondo referendum sulla Brexit o l’indizione di nuove elezioni politiche.
Ci potrebbe essere anche la revoca dell’art. 50?
Sì, la Corte di giustizia dell’Unione ha chiarito nella sentenza Wightman lo scorso 10 dicembre che la Gran Bretagna può unilateralmente revocare la notifica dell’art. 50. Questa revoca potrebbe essere notificata all’Unione fino all’ultimo secondo prima della scadenza del 29 marzo. Questa opzione, dal punto di vista politico e anche per gli evidenti effetti di tensione sociale che creerebbe, appare discutibile.
Una volta presentata la revoca dell’art. 50, il Regno Unito potrà presentare una nuova richiesta?
Il Trattato non prevede limiti in questo senso. Ma oltre agli aspetti giuridici bisogna pensare anche agli aspetti sociali, a cui facevo riferimento precedentemente, in Gran Bretagna conseguenti a una simile scelta.
Nel caso si arrivi a un rinvio oltre le elezioni europee cosa accadrebbe? Dovrebbero votare anche i cittadini della Gran Bretagna?
Dal punto di vista giuridico, se la Gran Bretagna dovesse essere ancora membro dell’Unione alla fine di maggio prossimo sarebbe obbligata a far celebrare le elezioni al Parlamento europeo. Certamente la Corte di giustizia veglierebbe perché gli obblighi dei Trattati, come questo, siano rispettati. Anche qui vi sono seri motivi di carattere giuridico e politico per evitare che la Gran Bretagna sia ancora membro dell’Unione al momento delle elezioni in assenza, come dicevo prima, di importanti cambiamenti dello scenario politico. In primo luogo, le elezioni per il Parlamento europeo in Gran Bretagna costituirebbero un nuovo informale referendum sulla Brexit con tutte le conseguenze, anche sociali, del caso. In secondo luogo, la celebrazione delle elezioni in Gran Bretagna richiederebbe la previsione di norme di diritto intertemporale per chiarire, tra l’altro, la sorte dei deputati eletti nelle elezioni del Parlamento europeo a seguito dell’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione.
(Lorenzo Torrisi)