Il caso del Memorandum che il governo si appresta (o appresterebbe) a firmare con le autorità cinesi che verranno tra qualche giorno in Italia al seguito del presidente Xi Jinping sta agitando molti sonni. Di quelli sfavorevoli all’intesa, certamente, ma anche di quelli che al buon fine dell’accordo hanno lavorato e stanno ancora lavorando.
Il perché è facile da capire: il regno del Dragone fa paura, a chi poco e a chi molto, ma fa paura. Ed è via via più evidente lo spirito conquistatore che anima una politica industriale e commerciale sempre più aggressiva, accompagnata da una disponibilità di soldi quasi senza limiti, al servizio di uno straripante desiderio di primeggiare.
Dunque, la Cina non è mai stata così vicina come adesso che ce la sentiamo quasi sul collo. E sappiamo che dobbiamo comunque averci a che fare. E sappiamo che averci a che fare non sarà una passeggiata. E sappiamo che passeggiarci insieme non è proprio la cosa più raccomandabile al mondo, ma che alla fine sarà inevitabile farlo.
Vista così, la bambina italiana accanto al gigante cinese fa un po’ di tenerezza. Per quanto possa essere avvertita, smaliziata e pronta la piccola Italia dovrà prendere molte precauzioni come il suo papà Mattarella le ha raccomandato nel dare il consenso. In ballo ci sono valori non trattabili come libertà, dignità, rispetto.
È chiaro che la Cina intende usare l’Italia come piattaforma per introdursi in Europa e nell’Occidente passando per uno dei salotti buoni del consesso internazionale. Per quanto ci si sforzi di farci del male, infatti, il nostro Paese resta pur sempre la seconda manifattura d’Europa e la settima potenza economica al mondo. Ed è questo, certo, il motivo del biasimo statunitense e della resistenza dei nostri principali partner dell’Unione. I quali, tuttavia, potrebbero anche essere motivati da una naturale forma di gelosia per essere noi i prescelti. Insomma, le facce di questo affare sono così tante che è impossibile guardarle tutte e inquadrarle per bene.
Come sempre in questi casi l’abilità consiste nell’interpretare il classico e mai in soffitta gioco delle parti. Ciascuno dei partecipanti ha (o dovrebbe avere) un obiettivo da cogliere e deve dispiegare tutte le sue capacità per riuscire a raggiungerlo senza soccombere nell’intrapresa. Non è un impegno da poco quello che ci andiamo a prendere. Se la Cina vuole usarci come terminale europeo della luccicante Via della Seta che si appresta a costruire è chiaro ed evidente che il nostro interesse è usare quel percorso in senso inverso per consentire ai tanti nostri imprenditori di andare a vendere in un mercato dove i milionari sono più degli abitanti dell’intera penisola.
Oggi i numeri in entrata e in uscita sono favorevoli ai cinesi: per 13,5 miliardi di beni che riusciamo a esportare ne importiamo 28,5 per un interscambio che supera di poco i 40 miliardi. Cifra modesta se pensiamo che lo stesso dato vale nel rapporto Germania-Cina poco meno di 200 miliardi, con uscite ed entrate che quasi si pareggiano.
Alla base dell’intesa dovranno esserci patti chiari. E appare pericoloso e per certi versi velleitario pensare di poter trattare alla pari con chi possiede una forza cento volte superiore alla nostra e una possibilità concreta di esprimerla. Anche per questo è stata fatta l’Europa ed è bene ricordarlo alla vigilia della sua tormentata Festa.