Il rinvio del giudizio sull’Italia da parte di Moody’s fa tirare un sospiro di sollievo, anche se il rating del debito italiano resta molto basso, Baa2, pericolosamente vicino al livello oltre il quale i Btp diventano titoli spazzatura. Ma la buona notizia è seguita da una serie di altre notizie di segno decisamente negativo, la peggiore delle quali è l’aumento del debito pubblico arrivato a gennaio a 2.358 miliardi, con un incremento rispetto al dicembre 2018 di ben 44 miliardi. Siccome si tratta di un mese in cui il prodotto lordo non è cresciuto, e l’inflazione resta bassa, il debito è peggiorato anche in termini percentuali.
Il debito resta il fardello più pesante che opprime il Paese, ostacola il suo sviluppo, ne riduce ogni margine di manovra, soffoca la sua sovranità. Eppure il Governo lo ha considerato a lungo una variabile secondaria, non lo ha posto al centro della sua politica economica, lo ha ignorato fino all’ultimo e, quando l’impennata dello spread nell’autunno scorso ha reso impossibile chiudere gli occhi, ha cercato affannosamente qualche escamotage.
È maturata allora l’illusione di poter collocare altrove, attraverso accordi politici con governi stranieri, i titoli di stato che il mercato rifiutava. Così, la macchina propagandistica ha fatto filtrare l’idea che potesse venire in soccorso Vladimir Putin, poi Donald Trump, infine Xi Jinping. La prima strada è apparsa sbarrata, la seconda impossibile perché il Governo di Washington non ha nessun fondo sovrano o strumento finanziario federale da poter manovrare a comando, la terza è quella che, secondo i timori degli Stati Uniti e dell’intelligence occidentale, resta ancora aperta come corrispettivo degli accordi commerciali sulla nuova Via della Seta (la Belt and Road Initiative). È una ipotesi, anche se i viaggi in Cina del ministro dell’Economia Giovanni Tria e di Luigi Di Maio hanno dato corpo al sospetto. Vedremo che cosa verrà fuori la prossima settimana durante la visita in Italia del presidente cinese, anche se è ingenuo ritenere che di queste cose si parli apertamente, tanto meno in pubblico. Può darsi che sia un’indiscrezione non fondata su fatti concreti o che non abbia seguito per ragioni di opportunità geopolitica, in ogni caso dimostra il grado di vulnerabilità dell’Italia proprio a causa del suo debito.
E qui arriva l’altra brutta notizia. Moody’s ha rinviato la sua pagella in attesa di conoscere che cosa il governo scriverà nel Documento di economia e finanza da presentare entro il 10 aprile. Ma il rischio è che il Def contenga soltanto un quadro macroeconomico senza gli obiettivi di politica fiscale per il prossimo anno. Quelli sono rinviati, senz’altro a dopo le elezioni europee del prossimo maggio, ma forse addirittura a ottobre se il Governo attuale sopravviverà fino all’autunno. È comprensibile la difficoltà di Tria. Dovrebbe scrivere nero su bianco che ci aspetta una stangata: bisogna trovare 23 miliardi di euro per le clausole di salvaguardia e altri 28 nel 2021. Si parte, dunque, da uno zoccolo altissimo e granitico. In caso contrario, ci sarà un aumento consistente delle imposte indirette, a cominciare dall’Iva, un vera doccia fredda sulle famiglie e sulle imprese. Ma allontanare il momento della verità, la resa dei conti, è un rimedio persino peggiore del male.
L’aumento del debito pubblico a gennaio, spiega la Banca d’Italia, è dovuto soprattutto alle maggiori disponibilità liquide del Tesoro che arrivano a 80 miliardi di euro. Questo cuscinetto non può mai diventare negativo perché altrimenti lo Stato dovrebbe bloccare tutti i pagamenti. Il suo andamento determina quasi sempre la dinamica mensile del debito, a meno che non ci siano impennate nei conti della previdenza e delle amministrazioni locali. Quando cresce vuol dire che il Tesoro allarga i cordoni della borsa e viceversa. Lo scorso anno ci fu un aumento un mese prima delle elezioni politiche. Quest’anno siamo a tre mesi dalle elezioni europee.
Coincidenze o ciclo politico della finanza pubblica? Gli andamenti dei prossimi mesi lo diranno. Una cosa è certa, il debito non si ferma sia in valori assoluti sia in percentuale al Pil e questo fa saltare i parametri e della finanza pubblica e della politica di bilancio. Non c’è Cina che tenga, dovremo collocare sempre più titoli e mostrare ai risparmiatori, in primo luogo a quelli italiani, che il Governo è credibile e il debito sostenibile. Quindi l’esecutivo dovrà fare una politica rigorosa. Non chiamiamola austerità, ma spendere ancora in deficit diventerà impossibile a meno di non rischiare la bancarotta. Discorsi da gufi? Discorsi di verità.
L’altra notizia uscita nel fine settimana riguarda il cosiddetto sblocca-cantieri. Far ripartire le opere pubbliche potrebbe mettere in movimento oltre 20 miliardi di euro che potrebbero contribuire in modo significativo alla ripartenza del Paese, frenando, quanto meno, la discesa del prodotto lordo. Il presidente del Consiglio Conte ha annunciato su Facebook che la prossima settimana verrà presentato un decreto. Venerdì hanno scioperato i lavoratori edili. Si sono mossi i costruttori e i presidenti delle regioni del nord, a cominciare dal Piemonte. Vedremo se il capo del Governo manterrà la promessa e che cosa conterrà il provvedimento, ma si è già perso molto tempo e c’è il rischio di un nuovo rinvio per ragioni politiche, non tecniche o burocratiche. Il Movimento 5 Stelle è il principale ostacolo all’avvio di un nuovo ciclo di rilancio delle infrastrutture, ha messo nel mirino le grandi opere, ma in realtà blocca anche tutte le altre. Il virus delle decrescita è contagioso e nemmeno Giuseppe Conte si è vaccinato.