Perché proprio adesso questa necessità di ricordare un fatto di 800 anni fa? Ha una forza simbolica? Dice qualcosa al nostro tempo nel quale ci troviamo di nuovo di fronte alla necessità di incontro, forse di scontro, con chi è diverso da noi per cultura e religione? E noi, davvero, chi siamo? A chi apparteniamo? Se apparteniamo a qualcuno questo è motivo necessario per essere nemici di coloro che appartengono a qualcun altro? E’ un tema decisamente urgente e bruciante che la pièce scritta da Angela Demattè affronta in modo originale.
Un giornalista agnostico italiano viene rapito da terroristi islamici mentre è in Terra Santa per girare un docufilm sullo storico incontro di Francesco con il Sultano Malik al Kamil. In un rifugio segreto, Giovanni e il terrorista Ismael sono lasciati soli per girare un video da diffondere sul web. Sono uno di fronte all’altro. Per forza. A cosa fare appello per innescare un dialogo? Ne va della vita di tutti e due. Nella memoria del giornalista e dal video girato fanno capolino le parole del frate sul percorso fatto da Francesco. Un percorso di conoscenza di sé e dell’altro. Che ha portato a un cambiamento profondo. Anche a loro tra alti e bassi capiterà la stessa cosa. I fatti alla fine precipiteranno in maniera imprevista. Ma può capitare che la storia con la S maiuscola a volte sia incisa da piccoli fatti particolari secondo un disegno misterioso? In mezzo alle spirali di caos e di odio innescate dal potere e dalla comunicazione è possibile che qualcosa accada ancora tra due uomini? E avrà valore anche se nessuno rimarrà a raccontarlo?
Questo è quel che si vedrà. Ma che ricerca, che interrogativi stanno dietro la scrittura lo possiamo sapere dalle note della stessa Demattè che riporto integralmente:
“L’incontro tra san Francesco d’Assisi e il sultano Malik Al-Kamil fu simbolo, generò significati per molte epoche a venire. Non per questo fu meno reale. Ma si può senz’altro dire che quel fatto reale incarnò e diede luce alle tensioni e alle necessità dell’umanità in quel momento. Per questo ci fu tramandato e per questo generò la presenza secolare dei francescani in quelle terre. E’ un incontro che tocca la parte più profonda della nostra storia, in uno di quei punti che sono serviti a dare forma a quel che siamo oggi. Non potevo raggiungere il cuore di quell’incontro se non a tentoni. Ho costretto perciò i personaggi in circostanze tali da farli legare a quel fatto antico, di cui essi sono immagine offuscata. Il linguaggio umano, la sua capacità di evocare altro da sé, si può dire sia la dimostrazione di qualcosa che trascende la materia. Ma allora molti di noi, sinceri con se stessi, non potranno dire di sentire vuota di trascendente perfino la parola più grande di tutte, regina del linguaggio della poesia d’Occidente e cioè: amore. Quella stessa poesia che Francesco incontrò in gioventù e per cui decise di dare la vita, secondo le forme che il mistero del suo cuore gli indicava. Finché incontrò Madonna povertà. Per recuperare quelle parole, che Francesco semplicemente incarnava e perciò poteva ripetere sempre con verità, per poter avere il coraggio di parlarne a teatro oggi, ho dovuto essere sincera anche con l’aridità del nostro tempo. In un certo senso, sfidare l’aridità più subdola del nostro mondo contemporaneo. Ma stando anche di fronte a quel bisogno di amore e di giustizia, alla preziosa visione laica e a quella nostalgia di assoluto che è ugualmente parte del nostro presente. In questo senso lo sfondo di quell’incontro tra un cristiano e un musulmano è lo stesso allora come oggi. Ancora di più nella sua fragilità e nel suo mistero, che mai risolveremo. Francesco conosce i meandri, i sogni e gli inganni che questi uomini mettono in campo. Ho desiderato che la vita di Francesco, il suo percorso tortuoso di crescita e di liberazione risuonasse nei personaggi. A volte in modo offuscato, a volte nitido, a volte goffo, a volte violento come una spada. Ho desiderato che attraverso i personaggi potessimo intuire quel risveglio che accadde a Francesco quando scese da cavallo e abbracciò il lebbroso. E’ un viaggio vertiginoso, che i nostri occhi occidentali, annebbiati dalle pallide cataratte degli -ismi religiosi e laici, buoni e cattivi che siano, faticano a mettere a fuoco. E d’altra parte non è possibile, fino in fondo, arrivare a quella vertigine. Ma possiamo avvicinarci a tentoni, in qualche modo, con la vergogna di dirselo”.
Nella regia di Andrea Chiodi questa nostalgia è diventata visibile, ci tocca da vicino in tanti momenti e ci convince che l’incontro con l’altro, chiunque esso sia, ha sempre dentro una vertigine. Grazie a Dio.
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“Francesco e il Sultano” di Angela Demattè, regia di Andrea Chiodi. Fino al 21 marzo, al Teatro Rosetum di Milano, via Pisanello 1.