In questi giorni è quasi impossibile non imbattersi nella pugnace faccetta di Greta Thunberg. Spopola su tv e social, scatenando i commenti più disparati e divergenti, come accade ai personaggi molto in vista e influenti a livello mediatico. Mi guardo bene dall’entrare nel merito del messaggio della giovane, né tantomeno voglio imbarcarmi in complicate dietrologie sulla funzione che gioca Greta sul piano politico.
Invece, fin da quando l’ho vista in tv per la prima volta, quello che mi colpisce di Greta è proprio il suo aspetto, così minuto eppure forte, gracile ma saldo, apparentemente inadeguato all’enorme scopo che si prefigge e, tuttavia, determinato a raggiungerlo. Il suo volto dai tratti ancora infantili, raramente sorridente, ha la forza implacabile e misteriosa dell’adolescenza quando si spende per un ideale e, così facendo, non lascia tranquillo il mondo adulto. Il quale, in alcuni casi, si è sentito sotto accusa e reagisce in modo un po’ nervoso e ideologico, come sempre quando non si ascolta bene e non si vuole fare i conti con la realtà.
C’è chi la considera solo un effimero fenomeno mediatico; chi inconsapevole strumento degli immancabili poteri mondialisti; qualcuno vede in lei il segno di un ridestarsi della coscienza giovanile tanto attesa in chiave politica; altri, infine, la rimproverano per essere solo un’adolescente ignara di come va il mondo, come se essere adolescenti fosse un male di per sé e la presunta ingenuità un peccato mortale.
Ci si affretta a ridurre in un pregiudizio la provocazione che Greta innegabilmente rappresenta con la sua persona, tenuto anche conto che la giovane svedese è affetta dalla sindrome di Asperger ed esce da un lungo periodo di depressione durante il quale, come dice in un’intervista, “nella mia vita non stava accadendo nulla, ero quel tipo di ragazza che sta alle spalle di tutti e non dice niente” (theguardian.com, 11 marzo 2019). Una ragazza fragile, dunque, con dei problemi, debole.
Non so in Svezia – probabilmente anche lì -, ma nella scuola italiana Greta sarebbe forse considerata un Bes (Bisogni educativi speciali) e sarebbe oggetto di un piano individuale didattico-educativo che, giustamente, l’accompagnerebbe per tutto il corso degli studi. Ma allora, come ha fatto una come Greta a prendere di petto la realtà così potentemente da diventare un simbolo per tanti giovani? Come ha potuto la sua fragilità trasformarsi in opportunità di cambiamento e sviluppo, tanto da dichiarare che senza il suo disturbo “non credo sarebbe stato possibile” impegnarsi così attivamente (huffingtonpost.it, 17 marzo 2019)?
In modo forse azzardato, mi viene di paragonare il caso di Greta a un’altra storia riguardante ancora un giovane, uno studente italiano che, dopo aver letto la traccia della simulazione della seconda prova di psicologia che stava affrontando, ha iniziato a piangere. Ne ha dato notizia Orizzonte scuola con un interessante articolo di Luisa Piarulli, che non si sofferma sulla semplice cronaca, ma solleva la questione drammatica della domanda educativa che emerge dal mondo sommerso dei ragazzi Bes, presente soprattutto negli istituti professionali.
Secondo la ricostruzione dell’articolo, il giovane è scoppiato in un pianto dirotto non perché incapace di affrontare la prova, ma perché, come ha confidato ai docenti presenti, si era identificato in pieno con il tipo psicologico che veniva descritto dalla traccia: un giovane che “non può fare a meno di constatare la sua incapacità a risolvere problemi che i suoi amici o fratelli, magari più giovani di lui, risolvono senza difficoltà; può sentirsi escluso dai loro giochi oppure relegato ad un ruolo marginale. Questo stato di cose può finire per deprimerlo e, a mano a mano che cresce, renderlo sempre più apatico e dipendente da quegli adulti da cui si sente protetto”.
Un perdente senza speranza, insomma: così lo studente si è sentito e perciò ha pianto, non intravedendo attorno a sé nessuna via di uscita, nessun aiuto al suo desiderio di felicità e nessun progetto buono per cui impegnare la propria vita.
Quanti ragazzi così incontriamo a scuola ogni giorno? Greta invece è stata presa sul serio e aiutata dagli adulti che aveva più vicini, i suoi genitori. Questi, dopo un iniziale rifiuto, hanno deciso di partecipare al disagio della figlia, sostenendone l’ipersensibile coscienza ambientale e il suo grande desiderio di bene per il mondo. Per questo è diventata emblema per tanti giovani che vorrebbero solo essere ascoltati, aiutati dagli adulti con gratuità e libertà, sfidati su grandi ideali e orizzonti vasti.
Non importa se Greta sarà una moda effimera. Al di là di tutte le considerazioni politiche e sociologiche sul movimento da lei promosso, la sua storia insegna che la fragilità e il limite diventano occasione, addirittura risorsa, se ho vicino a me qualcuno che mi permette di scorgere un oltre che fa respirare il cuore, altrimenti diventano una tomba. A scuola e in famiglia non occorrono tanto, o non solo, regole, nozioni o analisi, ma adulti provocanti, letteralmente “che chiamino fuori”.
I giovani non aspettano altro. Me ne sono reso conto ancora una volta partecipando a un gesto accaduto nell’ambito dell’edizione 2019 dei “Colloqui fiorentini” che ha del miracoloso, se si considerano i soggetti coinvolti – quasi un migliaio di “normali” studenti e docenti delle superiori; il luogo in cui si è svolto – piazza della Signoria a Firenze, di sera; lo scopo – recitare in coro poesie di Giacomo Leopardi. Certo, ci vogliono dei docenti veri, adulti talmente appassionati per quello che insegnano, per la loro vita e per il destino dei ragazzi, da proporre cose del genere. Ma per fortuna ci sono.