L’articolo di Gabriela Soppelsa su Buzzati mi ha invitato a rileggere le ultime pagine de Il deserto dei Tartari. Mi sono accorta di non aver mai prestato sufficiente attenzione al significato della morte di Giovanni Drogo, il protagonista. Mi era rimasta di quel romanzo l’impressione di un’opera importante, con un significato non ben definito, che oltrepassava il racconto della vita militare che si svolgeva nella immaginaria Fortezza Bastiani, in attesa di un nemico che non giungeva mai. Un posto sperduto, quasi metafisico, che tuttavia à stato paragonato non molti anni orsono da un esperto di cose militari alla Torre Umberto I che sorge sull’isola Palmaria nel mare di La Spezia, fortificazione eretta alla fine dell’Ottocento, poderosa macchina da guerra consumata da un logoramento che diviene metafora dell’esistenza umana.
Ma per tornare alle righe finali del romanzo di Buzzati, il sorriso di Drogo che muore fuori della fortezza, l’ultimo atto della sua vita dopo che si è assestato il colletto dell’uniforme e ha guardato brevemente la porzione di stelle che vede dalla finestra, mi offre l’occasione per parlare di un’altra rilettura, quella del romanzo breve di Henry James, La tigre nella giungla. Pubblicato nel 1903, tradotto mirabilmente in italiano da Giansiro Ferrata nel 1947, racconta di un uomo, John Marcher, ossessionato per tutta la vita dalla certezza che gli accadrà qualcosa di straordinario. Ma questo non avviene mai, o per meglio dire il protagonista, chiuso nella rete dei suoi pensieri, non è in grado di riconoscerlo nell’amicizia discreta di May Bartram, la donna che lo ascolta e lo accompagna, vegliando con lui nell’attesa di quell’incombente evento. Solo quando May muore, Marcher riconosce tardivamente sulla sua tomba quanto lei l’aveva amato e quanto lui l’aveva considerata solo nel gelo del suo egoismo.
Le ultime parole dei due romanzi, sorriso e pietra, sembrano indicare non solo l’esito opposto delle storie, ma anche il loro tono. L’attesa di una vita fallita, ma compiuta un momento prima della morte nel primo, nel secondo un muro eretto a proteggersi dall’evento che pure si attende. Per questo la rilettura quasi contemporanea dei due romanzi è stata per me una coincidenza interessante. A riprova del fatto che rileggere libri è cosa fruttuosa in molti casi. Le parole scritte restano invariate; siamo noi che cambiamo, anche nei nostri gusti letterari con il passare del tempo e se una lettura rimane appagante nel volgere degli anni, allora essa è piena di vita, non è una perdita di tempo a scapito della curiosità che farebbe prediligere ciò che è del tutto nuovo.
Con gli anni si continua ad apprezzare certo lo stile dell’autore, la sua capacità di condurre la trama verso l’epilogo, lo scavo nell’anima talvolta contorta dei personaggi. Ma il sorriso davanti alla morte rappresenta un varco di speranza che getta luce sul tempo che si fa breve. Non sarà forse la luce del primo mattino, quando si è nel pieno delle forze e si corre verso l’amore scortati da tutta la bellezza della natura e della cultura; sarà più facilmente il bagliore del tramonto e l’apparire della prima stella della sera. Non c’è malinconia nel cadere del sole, come in questo secco inverno che ci regala cieli azzurri striati di rosso e di viola. Prevale la gioia di un’altra giornata conclusa e l’ombra che si diffonde sopra le sue fatiche non impedisce il pensiero del sorgere di un’altra luce: “i miei occhi hanno visto la tua salvezza preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti”, diceva il vecchio Simeone.