Eravamo nel bel mezzo di una delle prove di evacuazione, quelle simulazioni che si fanno nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. E mentre andiamo al luogo di raccolta, mi si avvicina una mia studentessa: “Prof, posso farle una domanda?”. “Certo” – dico io. “Ma lei come fa a ricominciare ogni mattina? Dove trova la forza?”. Spiazzato, toccato e provocato.
Che domanda ragazzi! Di quelle che nascono dalla carne e dal sangue, dalla vita. Ma perché l’ha fatta proprio a me? Non lo so, ma tento una risposta: forse perché ha capito che a me le domande interessano e le accolgo. Anche perché i grandi poeti sono pieni di domande.
Infatti mi sono subito tornati in mente quei versi con i quali Giacomo Leopardi si presentò la sera del lunedì di Pasqua del 1826 davanti al bel mondo bolognese, invitato dall’Accademia dei Felsinei, di cui il conte Carlo Pepoli era in quell’anno vicepresidente: “Questo affannoso e travagliato sonno/ che noi vita nomiam, come sopporti/ Pepoli mio? Di che speranze il core/ vai sostentando?” (Al conte Carlo Pepoli, vv. 1-4). Dimmi come fai a sperare per ricominciare ogni giorno la vita, caro Pepoli! Dimmelo, perché ne ho estremamente bisogno per affrontare la mia vita! E’ la stessa domanda, in fondo, della mia studentessa.
Sono sempre più convinto che nel rapporto educativo il fine deve essere quello di suscitare la domanda, di rimettere in movimento la domanda, specie quella grande, quella che non ha risposta facile, o forse non ce l’ha proprio, almeno a un livello meramente umano. Siamo mendicanti, ha detto qualcuno, mendicanti di una verità, di un senso, di qualcosa per cui valga la pena vivere. Perché la vita ha bisogno di risposte, perché non si può vivere per vivere e basta.
Ma bisogna essere svegli, per domandare, bisogna essere assetati, affamati, sempre inquieti, mai rassegnati. E questo è doloroso. Pertanto la massa sceglie risposte facili, a buon mercato e si accontenta. Sonnacchiosa.
L’altro giorno, quasi a sfidarmi, in una classe mi propongono di ascoltare l’ultimo singolo di Sfera Ebbasta Mademoiselle. “Prof, è una risposta alle sue critiche!”. Accetto la sfida e ascolto, mentre i ragazzi mi osservano. Sfera fa la vittima: tutti a dire che è colpa mia se i ragazzi si drogano e spacciano, tutti che puntano il dito contro di me, sono ricercato, la polizia mi sta alle calcagna eccetera eccetera. Noto che questa è la parte del testo che più piace ai miei studenti, quella più lagnosa e banale. A me, invece, colpisce un altro passaggio, e glielo dico. “Se tuo figlio spaccia è colpa di Sfera Ebbasta / non di tutto quello che gli manca”. Bene, giusto. Se uno finisce nella droga, nel mercato della droga, se si mette a delinquere, gli mancherà di certo qualcosa. Ma, ecco la domanda, cosa? Boh.
Andiamo avanti: “Tu chiama la polizia / dicono che è colpa mia / ma nelle tasche non ho nulla / giuro tenente, nulla tenente / adesso ho tutto quello che mi serve”. Mi nasce un’altra domanda a partire dall’ultimo verso e la rivolgo ai ragazzi: dice che ha tutto quello che gli serve… cos’è? Chi lo sa? La risposta è istintiva: i soldi! Li guardo e chiedo ancora: i soldi sono davvero “tutto quello che mi serve?”. I soldi sono “tutto”?
Domande, domande… Io me le faccio. Ho paura che i ragazzi non se le facciano. Accettano risposte facili, scontate, banali, ingurgitano slogan. Non ci sono domande in Mademoiselle e questo mi fa pensare. In compenso c’è un “non ci penso” ripetuto come un mantra.
Gli uomini grandi interrogano la vita e il destino, fanno anche a cazzotti con Dio, qualche volta. La pubblicità, certa musica, il chiacchiericcio dei social sono tutti un’accozzaglia di risposte facili e rassicuranti. Sono false immagini di bene, per citare Dante, che “nessuna promission rendono intera”.
Oggi chi domanda è uno “sfigato”. Oggi l’Ulisse di Pavese che, nel dialogo L’isola, osa fare alla bella Calypso la domanda tremenda, “Sei felice?”, è un importuno seccatore. Oggi come ieri, oggi come da quando la grande risposta al destino umano si è affievolita, ha perso di fascino, di vigore in una società secolarizzata e disperata.
E però non c’è grandezza, non c’è vero progresso, non c’è poesia senza domanda, senza quella ferita che ci fa uomini. E che bisogna sempre tenere aperta.