Tanto rumore per così poco? Sono state firmate 29 intese bilaterali tra Italia e Cina, soprattutto lettere di intenti e impegni per il futuro. Stando a quanto dichiarato da Luigi Di Maio, che si è impegnato allo spasimo per la svolta filo-cinese, valgono due miliardi e mezzo di euro, poco più di quanto ha investito la Cina con State Grid in Cdp Reti nel 2014 durante il Governo Renzi, tre volte e mezzo meno di quanto ha speso ChemChina per la Pirelli nel 2015, senza per questo firmare nessun memorandum di natura politica. “Avranno una ricaduta futura di 20 miliardi”, giura il ministro dello Sviluppo economico. Non molto rispetto alle aspettative e come risarcimento delle tensioni politiche provocate con gli Stati Uniti e l’Unione Europea. In ogni caso, non gli crede nemmeno Matteo Salvini, che ha preferito far campagna in Basilicata attaccando la Cina.
Il Governo italiano, insomma, rischia una crisi diplomatica profonda con gli alleati occidentali e un’ulteriore divisione al suo interno per un piatto di lenticchie, dopo aver tributato onori sperticati all’ultimo imperatore offrendogli un successo d’immagine innegabile? È presto per dirlo, bisogna valutare i risultati con calma e in modo oggettivo. Tuttavia, a leggere quel che è stato firmato, i dubbi della vigilia si fanno ancor più consistenti.
Negli accordi si sente l’influenza del presidente della Repubblica, e non solo l’inevitabile moral suasion di Sergio Mattarella: è come se al Quirinale una squadra di esperti abbia fatto la spunta all’elenco di propositi presentati dal Governo di Roma e dai suoi interlocutori di Pechino. Il memorandum ha la durata di cinque anni rinnovabili, tuttavia “non costituisce un accordo internazionale da cui possano derivare diritti ed obblighi di diritto internazionale. Nessuna delle disposizioni deve essere interpretata ed applicata come un obbligo giuridico o finanziario o impegno per le Parti. L’interpretazione deve essere in conformità con le legislazioni nazionali delle Parti nonché con il diritto internazionale applicabile e, per quanto riguarda la Parte italiana, con gli obblighi derivanti dalla appartenenza dell’Italia all’Unione Europea”. Sono i paletti politici entro i quali viene inserita la collaborazione economica, istituzionale, culturale.
“Collaborazione”, è proprio questa la parola chiave ripetuta come un mantra nel documento pubblicato ieri. Il campo prevalente riguarda i trasporti, la logistica, le infrastrutture, c’è poi un reciproco impegno ad aumentare investimenti e scambi commerciali, anche se qui la reciprocità non basta visto che l’Italia vuole riequilibrare a suo favore la bilancia commerciale e nello stesso tempo non ha risorse finanziare sufficienti per investire in Cina. Tanto è vero che per sostenere le aziende italiane la Cassa depositi e prestiti ricorrerà all’emissione di titoli, i cosiddetti Panda bond, sul mercato cinese insieme alla Bank of China. Non c’è nessun accenno alla questione oggi più spinosa: Huawei e la sua partecipazione alla infrastruttura 5G in Italia.
Gli accordi concreti tra imprese sono dieci, tra i quali una turbina a gas da parte di Ansaldo energia che inaugurerà anche una collaborazione tecnologica con la China United Gas Turbine Technology; due accordi di cooperazione da parte dei porti di Genova (ampliamento di un molo) e Trieste (collegamenti con l’Europa centro-orientale); la Danieli verrà aiutata a sbloccare un cantiere siderurgico in Azerbaijan; l’Eni farà esplorazioni in Cina; la Snam costruirà qualcosa lungo la Via della seta; la Cdp emetterà debiti; Intesa Sanpaolo entra nella città di Qingdao. Poi ci sono accordi agricoli come le arance italiane che entrano nella patria originaria delle arance o l’esportazione di seme bovino. Senza dimenticare la piattaforma per promuovere lo stile di vita italiano, la restituzione di 796 reperti archeologici o l’intesa tra l’Ansa e l’Agenzia Nuova Cina (Xinhua) senza condizionamenti reciproci, ça va sans dire. In tutto, il Governo sostiene di aver portato a casa 7 miliardi di euro, ma si tratta di stime e in ogni caso sono nettamente inferiori alle promesse di Palazzo Chigi.
L’attenta regia del Quirinale ha prodotto alcune affermazioni politiche di un certo rilievo. La prima riguarda l’Unione Europea: Mattarella e il leader cinese nel colloquio hanno messo a verbale: “Abbiamo bisogno di un’Europa unita. Chi si isola finisce per perdere”. Il leader comunista ha rigettato l’idea di un’Europa “come un menù à la carte” e si è dichiarato per “un’Europa stabile, aperta e prospera e mi auguro – ha aggiunto – che l’Italia continui a giocarvi un ruolo fondamentale”. Il capo dello Stato ha risposto: “Vogliamo sviluppare ulteriormente i rapporti tra Cina ed Europa, nel rispetto dell’unità europea e dell’amicizia con gli Stati Uniti”. Però, “ci deve essere un’effettiva parità di condizioni e reciprocità”. Altro punto politico delicato riguarda il sovranismo e il protezionismo. Xi ha sottolineato che “la Cina vuole garantire pace e sicurezza, spero che l’Onu lavori con forza a questi obiettivi. Solo il multilateralismo può battere protezionismo e militarismo”. Ben più sfumata la questione dei diritti umani sulla quale ha insistito il presidente della Repubblica italiana.
Martedì Xi Jinping sarà a Parigi. Il presidente francese Emmanuel Macron ha invitato anche Angela Merkel e Jean-Claude Juncker con l’intento di trasformare l’incontro in una sorta di summit europeo. L’Italia “prima della classe” è rimasta fuori, vedremo che cosa ne uscirà in concreto e se i propositi cinesi sull’Unione Europea sono solo retorica.