Tra gli accordi commerciali firmati tra Italia e Cina sabato scorso i più “sensibili” sono probabilmente quelli relativi ai porti di Trieste e Genova, per ovvie ragioni “geografiche” nella Via della Seta. Nei due punti in questione la “controparte cinese” è la società “China Communications Construction Company”; questo sarebbe il veicolo che, presumibilmente, investirà nei due porti. Di questa società, quotata, sappiamo che ha un debito sensibilmente sopra la media rispetto a società simili per un totale, al cambio di ieri, di circa 40 miliardi di euro quasi totalmente verso il sistema bancario. Date le caratteristiche del sistema economico-finanziario cinese e delle sue banche, il ruolo dello Stato e le politiche di stimolo monetario degli ultimi anni non possiamo farci grandissime illusioni sul prestatore di ultima istanza.
In sostanza per investire in un’attività strategica per un Paese che sarebbe una portaerei in mezzo al Mediterraneo ci facciamo dare i soldi da un partner che molti considerano problematico. Non vogliamo addentrarci nel ginepraio delle conseguenze geo-politiche degli accordi firmati tra Italia e Cina, della possibile vendetta americana o di quella dei nostri partner europei. Quello che ci sembra singolare è che un Paese del primo mondo, con una quantità di risparmio privato ancora molto significativa, debba ricorre a debito straniero per finanziare investimenti strategici. Avrebbe tutto molto più senso se la questione fosse la mancanza di capacità “tecniche”, ma nemmeno l’attuale provincialismo italiano nella sua fase più acuta,“tutti sono sempre meglio di noi”, può sostenere che gli italiani non abbiano qualche competenza nelle costruzioni, soprattutto se c’è di mezzo l’acqua.
Sicuramente tante cose sono andate storte e abbiamo una lista così di “riforme” da fare, ma non si comprende per quale ragione un Paese con un record di avanzi primari notevole e un deficit costantemente sotto il 3% del Pil debba ricorrere a questi “espedienti” per finanziare investimenti strategici. Teniamo presente che l’attenzione sugli investimenti non può ignorare l’oggettivo e allarmante impoverimento di una larga fascia di italiani. È abbastanza irrealistico dire a una persona che non arriva alla fine del mese di continuare a non mangiare perché bisogna fare gli investimenti; infatti in tutta Europa, e specialmente in Francia, la politica su questo punto ha dato risposte precise.
E così, il debito che l’Italia non può fare e che serve per fare gli investimenti e creare domanda in una fase globale e finanziaria che fa paura, andiamo a farcelo fare dalla Cina, con tutte le conseguenze del caso. Ci diranno che “abbiamo il debito alto”, ma siamo in una fase di esplosione dei debiti pubblici senza precedenti e con tali ritmi che certe differenze sullo “stock” diventano davvero poco significative. Soprattutto se il trend di peggioramento è storicamente molto peggiore del nostro e in economie dove il debito privato è molto alto. Non pensiamo solo agli Stati Uniti. La vera cura del debito, ieri, oggi e domani non è innanzitutto “l’austerity”, ma crescita e “buona” inflazione.
Se lo scenario rimane quello di un debito alto in un Paese che viene da dieci anni e più di declino e in cui non è possibile investire, e tanto meno aspirare a shock fiscali o di domanda pubblica, il risultato sono gli accordi “disperati” con la Cina in un certo senso iniziati ben prima di questo Governo giallo-verde e già in settori molto sensibili e in modi “problematici”; il nervosismo americano era già palese con i primi coinvolgimenti cinesi in Cdp reti. A testimonianza del fatto che, al di là della forma più o meno professionale, la questione è molto più di sostanza e “strutturale” di quanto non sembri.