Dopo settimane di proteste e colpi di scena sembra chiudersi uno dei capitoli più lunghi della travagliata storia algerina: l’era di Abdelaziz Bouteflika. Il “colpo di grazia” al vecchio e malato presidente è stato inferto ieri da Ahmed Gaid Salah. Il capo di stato maggiore, nonché ministro della Difesa, ha dichiarato che Bouteflika non è più in grado di governare a causa delle sue condizioni di salute e per questo ha chiesto di applicare l’articolo 102 della Costituzione.
In sintesi, l’articolo prevede che quando il presidente della Repubblica, a causa di una malattia grave e duratura, è incapace di svolgere le proprie funzioni, il Consiglio costituzionale si deve riunire per verificarne l’infermità. In caso affermativo il presidente del Consiglio della nazione – ruolo attualmente ricoperto da Abdelkader Bensalah – è tenuto a farne le veci, per un massimo di 45 giorni. Se trascorso questo periodo il Consiglio costituzionale continuerà a constatare lo stato di infermità, il Parlamento potrà dichiarare la presidenza vacante e Bensalah assumerà la carica di capo di Stato ad interim per ulteriori 90 giorni, durante i quali dovranno essere indette nuove elezioni.
La netta presa di posizione “dei generali” arriva dopo il passo indietro fatto pochi giorni fa dallo stesso presidente – o, visto il suo stato di salute, sarebbe meglio dire “da chi per lui” – che aveva dichiarato di voler rinunciare a concorrere per il quinto mandato, rinviando le elezioni ma restando, de facto, in carica fino al loro svolgimento. In linea teorica, tutto avviene secondo quanto previsto dalla Costituzione ma nei fatti ha tutta l’aria di essere una sorta di golpe di palazzo o, per dirla in altri termini, un “golpe medicale”, così come accadde al presidente tunisino Habib Bourghiba esautorato negli anni ottanta da Ben Ali che fece compilare da sette medici un certificato che attestava l’incapacità del vecchio leader di svolgere le proprie funzioni a causa delle precarie condizioni di salute. Al di là degli aneddoti è evidente che l’esercito algerino ha tolto la maschera e ha dimostrato di essere il vero potere forte del Paese.
Se, dunque, ora possiamo dire “Boutef adieu”, così come scritto in molti dei manifesti che hanno riempito (e continuano a riempire) le piazze algerine, resta l’incognita del futuro. In molti ipotizzano una transizione gestita dai militari – nella migliore delle ipotesi concordata con sindacati e opposizioni – che possa portare a una qualche presidenza “collegiale”. Difficile dire, viste le divisioni interne, se ci potrebbe essere anche una rappresentanza di alcuni partiti d’ispirazione islamista. Molto più semplice, invece, constatare che iniziano a serpeggiare i primi malumori. Da più parti sono giunte critiche sul fatto che a capo del Consiglio costituzionale, che dovrebbe certificare in prima istanza l’infermità del presidente, vi sia uno dei suoi uomini di fiducia, Tayeb Belaiz. Non mancano poi le polemiche sulle origini marocchine del futuro premier ad interim. Secondo Lakhdar Benkhellaf, leader del partito islamista “Fronte per la Giustizia e lo Sviluppo” (Fjd), Bensalah avrebbe avuto la nazionalità algerina solo nel 1964 e questo non gli permetterebbe di governare il Paese.
Al di là delle dispute tra i “poteri forti”, poi, è necessario chiedersi se le piazze saranno disposte a mettere i manifesti in soffitta o, invece, decideranno di sostituire la scritta “Boutef adieu” con altre, legittime, richieste. Le proteste vanno avanti, i movimenti e gli attivisti continuano a supportare i giovani nelle piazze ma mancano di una rappresentanza politica forte e coesa, capace di convogliare il dissenso in un progetto elettorale in grado di rappresentarne le istanze. Questo potrebbe favorire, così come accaduto durante le rivolte egiziane, i partiti già consolidati che hanno poco a che vedere con le richieste dei manifestanti.
Infine andrebbe considerato il possibile ruolo degli attori esterni, spesso ospiti indesiderati nei teatri di crisi del Nord Africa e del Medio Oriente, che con la loro longa manus cercano di salvaguardare i propri interessi con l’immancabile corollario di disastri a cui abbiamo assistito (perlomeno) negli ultimi sette anni, dalla Libia alla Siria passando per il martoriato Yemen. Su questo i manifestanti si sono espressi chiaramente. “Macron vattene, siamo nel 2019 e non nel 1830”, “Macron occupati dei gilet gialli”, “France, Usa stay away, grazie per l’interessamento ma non è un problema vostro”, “L’Algeria non è la Siria”: sono queste le scritte che campeggiano sugli striscioni dei giovani nelle strade e sono queste le loro richieste. Se le potenze internazionali avranno il buon senso di lasciare liberi gli algerini di scegliere autonomamente il proprio destino, le incognite che minano il futuro di questo Paese non saranno certo risolte ma, almeno, avremo un problema in meno.