Ennesimo sanguinario attentato a Mogadiscio, in una Somalia che non riesce a trovare pace nonostante la fine formale della lunga guerra civile. Almeno 11 morti e 16 feriti causati dall’esplosione di una bomba nell’affollata via Maka Al-Mukarama. Completamente distrutto un ristorante dove per via dell’ora si trovavano molte persone. Secondo Marco Di Liddo da noi intervistato, analista del Cesi – Centro studi internazionali, autori sono cellule di al Shabaab, gruppo qaedista sanguinario e bene armato che non ha mai deposto le armi: “Se non fosse per la forza internazionale africana, la Somalia ricadrebbe nelle loro mani nel giro di pochi mesi”. Paese troppo povero per stare in piedi da solo, la Somalia subisce anche le infiltrazioni della Cina che, dice Di Liddo, ha interessi in tutto il continente e delle monarchie del Golfo che combattono tra di loro una guerra silenziosa per la conquista del Corno d’Africa.
Di Liddo, siamo davanti a una nuova strage a opera di al Shabaab?
Assolutamente sì, c’è la possibilità altissima che i responsabili siano cellule di al Shabaab perché fino ad ora dei due grandi gruppi jihadisti attivi in Somalia questo ha dimostrato di avere maggiore organizzazione, armi potenti e capacità di effettuare attentati anche a Mogadiscio.
Qual è l’altro gruppo islamista? E’ in contrasto con al Shabaab?
Sì, l’altro gruppo è la cellula locale di Daesh, è attivo principalmente a nord ed è un gruppo nato dalla scissione di alcuni clan e combattenti di al Shabaab che non erano più d’accordo con la linea militare e sono saliti sul carro di Daesh soprattutto per trovare un prestigio personale. Se non si può fare carriera l’alternativa per uno jihadista è fondare un proprio gruppo con il marchio di Daesh.
Si dice che l’ex stato islamico sconfitto in Siria e in Iraq voglia rifondarsi proprio in Somalia, le risulta?
In realtà il numero di foreign fighters di origine somala che è andato in Siria e in Iraq è estremamente basso, per due motivi.
Quali?
Uno di tipo economico: è molto costoso recarsi in Medio oriente da qui. Il secondo è di ordine tattico. La Somalia è un fronte centrale nel jihad globale, per cui preferiscono lottare in casa. Se qualcuno adesso è scappato da Siria e Iraq quelli diretti in Somalia sono pochissimi rispetto al flusso verso il Nord Africa, paesi come Tunisia, Marocco e Libia.
Il governo somalo che potere effettivo ha, che linea politica segue?
Il governo somalo sta facendo significativi progressi per quanto riguarda la stabilità e la costruzione delle istituzioni. Non dobbiamo però mai dimenticare da dove è partito questo governo e cioè una guerra civile ancora in corso che rende impossibile un potere effettivo sul territorio. Il controllo è esteso all’insieme dei palazzi istituzionali a Mogadiscio e poco più perché anche le forze armate hanno standard di addestramento inadeguato a fronteggiare la minaccia jihadista. Senza le truppe dell’Unione africana il paese ricadrebbe nel giro di pochi mesi nelle mani di al Shabaab.
Non si può parlare di unità nazionale effettiva?
A causa della povertà e del sottosviluppo molti dei soldati somali preferiscono attività illegali, rifugiandosi nelle istituzioni dei clan locali. Questo crea una frammentazione a livello sociale che impedisce processi virtuosi.
Che ruolo hanno in Somalia Cina e Francia, i due paesi più attivi nel neocolonialismo africano?
La Cina ha interessi in tutta l’Africa, in Somalia è più complesso concretizzare questi interessi per via della guerra civile. La Cina è attore fondamentale in tutto il Corno d’Africa perché investe in Eritrea, Kenya e Etiopia come testimoniano i massicci investimenti nel settore portuale, una rete commerciale di collegamenti marittimi che la Cina sta costruendo per aumentare il suo export e di importazione di materie prime che servono sempre più per un’industria affamata come quella cinese.
E la Francia?
La Francia è attiva nei territori del suo ex impero coloniale. Dopo la Cina in realtà sono le monarchie del Golfo che combattono le una contro le altre una guerra silenziosa per il controllo del Corno d’Africa. E poi c’è la Turchia, che tiene un profilo silenzioso e che può dirsi uno dei partner privilegiati di Mogadiscio.
(Paolo Vites)