Zero crescita per il 2019, ha predetto il Centro Studi di Confindustria, se non si farà niente per cambiare le cose. Se non si attueranno, cioè, quelle misure che da tempo l’associazione degli industriali (non da sola per la verità) va suggerendo al Governo per evitare di dover smentire i dati messi in manovra facendo esplodere deficit e debito. Esattamente quello che non dobbiamo fare se vogliamo conservare un minimo di credibilità nei confronti dell’Europa e dei mercati internazionali.
Il dato ha fatto scalpore, ma in parte era atteso. Cioè, ha fatto scalpore nonostante fosse atteso. È come se l’averlo sentito dire ufficialmente abbia dato corpo a un timore che c’era, ma ancora allo stato gassoso. Se ne percepiva la presenza, ma non la consistenza. Adesso il quadro è chiaro e i numeri sono scolpiti nero su bianco. Nessuno può far finta di non averli ascoltati o letti tanto forte è stata la loro diffusione su giornali, televisioni, radio, siti d’informazione e social network.
La reazione della politica è stata tutto sommato composta. A parte qualche sparuto difensore delle cause perse, che s’è infatti perso nella rete senza trovare appoggio, i due leader della maggioranza hanno dettato una linea tutt’altro che rivolta allo scontro. E se Salvini ha parlato in un primo momento di gufi che si sarebbe incaricato di smentire (per poi ammorbidire la posizione), Di Maio ha addirittura ammesso – da New York dove si trovava – di condividere le preoccupazioni degli industriali.
Dunque, nessun duello al calor bianco e al suo posto la volontà di porre rimedio in qualche modo allo sprofondamento dell’economia e dei conti nazionali. D’altra parte, era già da qualche settimana che Lega e M5Stelle avevano cominciato a elaborare provvedimenti teoricamente utili a far ripartire la macchina della crescita. Uno su tutti il cosiddetto Sbloccacantieri che dovrebbe liberare risorse già disponibili per decine di miliardi e creare centinaia di migliaia di posti di lavoro.
Siccome le cose sono più facili a dirsi che a farsi, e in Italia i numerosi tentativi di semplificazione hanno condotto alla complicazione massima di ogni atto e contratto, quella che appare come – e dovrebbe effettivamente essere – la prima cura ai mali del Paese stenta a materializzarsi per una serie di motivi che vanno dagli impedimenti posti dalla burocrazia alla nemmeno tanto sottile rivalità dei soci gialli e verdi preoccupati d’intestarsi l’uno più dell’altro il merito della soluzione ai problemi.
Quello che è certo è che il tempo stringe e gli elettori cominciano a dubitare della bontà delle promesse elettorali, soprattutto in relazione ai due cardini che tengono in piedi l’esecutivo, Quota 100 e Reddito di cittadinanza. Non sarà certo attraverso di loro che i malestanti (secondo un neologismo giornalistico) troveranno soddisfazione e, soprattutto, non sarà certo per le loro virtù che i giovani potranno trovare quell’occupazione qualificata alla quale giustamente aspirano.
Ci vuole molto di più. E per ottenerlo occorre davvero lasciare da parte gli schemi operativi fin qui conosciuti per arrivare a quel Patto per lo sviluppo che può e deve coinvolgere Governo e parti sociali e tutti gli attori, pubblici e privati, che possiedono un pezzo di quella combinazione che, messa insieme, offre la risposta ai bisogni e alle aspettative. E anche alle ambizioni di un Paese che non può accontentarsi di sopravvivere quando avrebbe le qualità per vivere alla grande.